Dal saggio di Sergio Sablich, pubblicato nel programma di Sala del Teatro Comunale di Firenze per Die Walküre rappresentata il 20 febbraio 1980
Fra l’azione dell’Oro del Reno e quella della Walkiria intercorrono migliaia di anni. Ma è come se non ne fosse trascorso alcuno. Così invita a pensare la musica, nel preludio che apre l’opera: l’uragano che spezza la quiete orrorosa dell’attesa. Il suo compito è infatti quello di ritrarre naturalisticamente una tempesta, dalla quale un uomo solo, smarrito, inseguito e ferito cerca disperatamente riparo. Ancora non sappiamo che egli è Siegmund, il giovane wälside perseguitato da nemici implacabili – i Neidinge – per aver difeso una delle loro fanciulle costretta a nozze infami, e che ora giunge stremato proprio nella casa di Hunding, il più feroce dei suoi avversari. Ma se prestiamo orecchio alla musica, la figura della tempesta che squassa la scena, coi suoi realistici crescendo e diminuendo, forte e piano, sullo sfondo immoto di un lungo pedale di re minore, non è altro che una trasformazione del motivo della lancia di Wotan, simbolo del potere e allo stesso tempo della schiavitù del dio, su cui si inarca possente, tale e quale, ripetuto in progressione armonica, il tema di Donner che verso la fine dell’Oro del Reno aveva evocato il temporale purificatore.
Riallacciandosi a un materiale tematico già pregno di significati, Wagner non soltanto ottiene lo scopo di conferire continuità all’azione, ma rende anche più profondi i nessi interni del dramma attraverso la musica, su un piano di doppia, intuitiva simultaneità; quel che Wotan alla fine dell’Oro del Reno avverte e vuole (l’infamia cosciente della colpa e il desiderio di riscatto) si pone immediatamente in atto all’inizio della Walkiria. Quando dalla figura della tempesta, che poco a poco va calmandosi, nasce, come per naturale filiazione, il motivo di Siegmund in fuga (violoncelli), un altro particolare si palesa in virtù della sola musica: Siegmund è una prima incarnazione del pensiero di Wotan, suo padre, ma non è ancora un pensiero libero, come sarà invece Siegfried. La differenza, semplificando, sta tutta nella opposta funzione di due simboli musicali già risuonati allo stato elementare nell’Oro del Reno e ora immessi nel divenire del dramma: la lancia (una scala discendente), simbolo della santità del patto che rende schiavo Wotan, e a cui è strettamente connesso il motivo di Siegmund; e la spada (un arpeggio ascendente), pegno, nella mente di Wotan, della redenzione, e nucleo originario del tema di Siegfried. Necessità del patto e necessità della redenzione (ancora una volta, una duplice necessità!) sono i poli di attrazione intorno ai quali ruota l’intera Tetralogia. E si ricordi: in tutta la Tetralogia non esiste una sola scena (tolte la prima dell’Oro del Reno e quella delle Norne nel prologo del Crepuscolo degli dei, che infatti si pongono al di fuori del dramma) in cui o la lancia o la spada o entrambe non siano materialmente sempre presenti ai nostri occhi. Con evidente, diretto significato.
L’apparizione, all’inizio della prima scena, di Sieglinde, sposa infelice di Hunding, il conforto e il ristoro che ella offre allo straniero esausto con atti di ieratica nobiltà in una atmosfera arcana e di mistero (è inevitabile stabilire una mirabile, non casuale corrispondenza con Elettra che accoglie il fratello Oreste a lei ancora ignoto), sono contrappuntati in musica da un inquieto motivo che si ripete ossessivamente uguale, statico e circolare (primi e secondi violini), espressione della sua pietà ma anche della sua ansia di amore. Wolzogen per primo, ci pare, ha fatto una osservazione solo apparentemente banale: questo motivo, egli afferma, compare sempre a due parti (procedenti in terza, aggiungiamo noi), “”quasi a voler legare sotto il segno della compassione le figure di questa coppia gemella””. E quando si presenta a una sola parte, sottolineato con accento particolare, ciò avviene in momenti di grande significato: quando Siegmund vuole ripartire (e allora è spinto verso l’acuto, gridato quasi, su un basso fremente), quando Sieglinde deve lasciarlo solo e quando ella ritorna presso di lui. Lo segnaliamo come un esempio, volutamente semplicissimo, della cura meticolosa e finissima con cui Wagner costruisce la sua musica, punto dopo punto. Sottigliezze a cui egli teneva assai, e di cui la partitura della Walkiria è costantemente piena. Nel dialogo della prima scena, riempito più di sguardi e di silenzi che di parole, il motivo di Siegmund si congiunge a quello della compassione di Sieglinde. Tali motivi, nella loro ineluttabile fissità, non hanno nulla di eroico, come invano ci aspetteremmo: la flessione verso il grave del primo, con la ossessiva presenza del modo minore e la sospensione ritmica quasi fisicamente dolorosa; il tenero ondeggiare del secondo, che si innalza verso l’acuto solo per spegnersi in un piano improvviso, sono figure musicali che non hanno avvenire. Esse caratterizzano vittime predestinate, personaggi nati per espiare colpe altrui, promessi alla morte. Già all’esordio (e poi è un continuo crescendo, tanto più amaro perché ammantato di fugace illusione d’amore), un presagio di sventura racchiude la storia di Siegmund e Sieglinde come in un bozzolo che mai si aprirà alla luce e alla vita. Una storia che, anche nella musica, si consuma senza svolgersi, accade senza divenire, dilacerata tra passato e futuro, senza un presente che non sia la fuga. Quando essi giungono ad affermarsi come persone nuove e vere, attraverso la compassione prima, l’amore poi, nell’attimo sublime del riconoscimento (dove per la prima volta si chiamano con il loro vero nome, svelandosi reciprocamente l’intero mistero della loro identità), in quel momento stesso si consegneranno nelle braccia della morte. Un’aura tristaniana avvolge come un sudario gran parte di questo primo atto. Tristano viveva già nella mente di Wagner, lo sappiamo; ma è di estrema importanza che di qui più d’uno spunto tematico passi direttamente in esso, già nel preludio (il famoso salto di sesta), per esservi sviluppato e compiuto in nuova ricchezza di forme.
Questa capacità di caratterizzazione della musica, questo suo inabissarsi in un simbolismo di inaudita pregnanza per poi riemergere rigenerata e più temprata, raggiunge nel primo atto della Walkiria vertici supremi. Si prenda il passaggio dalla prima alla seconda scena: spentasi l’eco dell’appassionato canto d’amore di Siegmund, culminato nel nostalgico assolo del violoncello, un motivo rude annuncia l’arrivo di Hunding, attraverso due gradi successivi: prima piano, quasi velato, come una minaccia incombente, poi in tutta la forza di uno spessore fonico massiccio. E facile notare che Wagner ottiene l’effetto desiderato affidando quel motivo, la seconda volta, alla compagine delle tube. Un improvviso squarcio degli ottoni dopo una lunga sezione dominata dal canto melodioso degli archi è espediente in sé abbastanza consueto, al pari di tanti altri bruschi contrasti di cui è capace la musica. Quel che conta è l’intuizione espressiva e l’uso del materiale che simili contrasti governa. Vi è qui in esso stillato come un veleno mortale, simbologia della morte che comprenderemo appieno solo quando quel ritmo inesorabile e l’accordo ribattuto che lo caratterizza riecheggeranno nella marcia funebre del Crepuscolo (nella tonalità della morte, do minore, qui come là). La relazione è ancora una volta sotterranea, ma precisa, sapiente: ché Hunding, qui, è l’angelo della morte di Siegmund, come Hagen lo sarà, là, di Siegfried.
Siegmund inizia, subito dopo, il lungo racconto delle proprie e altrui sventure, dove temi già uditi e ben noti si intrecciano in rapida successione ad altri di nuovo conio, seppur da essi derivati. Segnaliamo, fra i primi, quelli che rammentano la onnipresenza di Wotan, padre e protettore della razza dei Welsunghi, la cui ombra aleggia in tutta la rievocazione di Siegmund; e, fra i secondi, uno solo, ma di fondamentale importanza per comprendere il risvolto psicologico dell’azione: allorché Siegmund, interrogato da Sieglinde su chi egli sia, esita un attimo a rispondere (“”solleva lo sguardo, la fissa profondamente negli occhi e incomincia gravemente””, indica la didascalia), prima delle sue parole (che potranno dire solo chi egli non è: non Friedmund – apportatore di pace -, non Frohwalt – uomo gioioso -, ma solo Wehwalt – letteralmente colui che vive nel dolore e di dolore; sarà Sieglinde, più tardi, a nomarlo Siegmund, che significa angelo di vittoria), risuona in orchestra (ancora violoncelli soli) una melodia che poco a poco, dopo un lancinante salto ascendente di settima, si estingue nel nulla. Non è solo, come spiegano le guide tematiche, il “”motivo della razza dei Welsunghi””, quella a cui Siegmund, unica sua certezza, sa di appartenere. La sua costituzione, il suo ritorno associato a Brunilde nel terzo atto, ci dicono anche che a esso è legata l’ansia di identità individuale di Siegmund, come incarnazione vivente di un bisogno d’amore; di più, la sua storia (racchiusa in poche note isolate, ma cariche di valore semantico se riflesse su tutto il resto) di tristezza e di solitudine. E il peso insostenibile di tanta tristezza e solitudine che spaventa Hunding ed esalta Sieglinde, che squarcia il velame delle tenebre e spalanca davanti ai loro occhi la verità delle cose. Per il vincolo del sacro diritto di ospitalità, Hunding è obbligato a risparmiare per una notte il nemico disarmato: ma l’indomani sarà guerra e vendetta mortale.
La terza scena, che si apre sul pianissimo dei timpani soli, quasi un richiamo che si spenga nella notte, dopo un passaggio orchestrale di sgomentante bellezza, porta a compimento la vicenda con ritmo serrato. Nella solitudine notturna Siegmund ripensa con angosciosa speranza alla spada apportatrice di vittoria promessagli un giorno dal padre. Quella spada si trova là: prima ancora del famoso racconto di Sieglinde (“”Der Manner Sippe””, uno dei rari pezzi chiusi della Tetralogia), lo apprendiamo inequivocabilmente dall’eroica fanfara del suo tema (prima piano, in minore, poi nell’animato fulgore di uno sfavillante do maggiore, quando Siegmund la scorge infissa nel tronco). Col racconto di Sieglinde, in cui torna solenne il tema del Walhalla, i due si riconoscono fratelli gemelli, ma si sentono attratti da un legame più forte, quello dell’amore. Un tocco poeticissimo giunge a questo punto dall’esterno: una brezza lieve apre la porta, lasciando entrare un tranquillo raggio di luna. Come la primavera subentra all’inverno e la serenità alla tempesta, con la stessa forza naturale, lo stesso affiato cosmico che manda in frantumi le catene della legge e del costume esaltando un amplesso adulterino e incestuoso, Siegmund e Sieglinde vanno incontro al loro destino inebriati dall’incantesimo dell’amore. Nel duetto che segue tutto un rifrangersi di ombre e di luci, di ricordi, nostalgie e speranze Siegmund intona sull’identica melodia con la quale Alberich aveva rinunziato all’amore maledicendolo, parole fatali e decisive: “”D’un sacro amore suprema angoscia, d’un ardente amore consumante angoscia, chiara mi brucia nel petto, mi spinge ad agire e a morire””. Poi, al culmine dell’esaltazione, estratta dal tronco del frassino Nothung, la spada in esso conficcata da Wotan, fugge con Sieglinde nella foresta, sotto la luna, invano inseguito dal vorticoso slancio dell’orchestra, dove si mescolano estasi e affanno. Deciso ad agire per poter morire.
La meravigliosa capacità della musica wagneriana di rappresentare col suo proprio linguaggio (proiettando come in un caleidoscopio magico diversi complessi tematici nel centro focale di una simultaneità contrappuntistica in perpetuo, rapido movimento) eventi drammatici diversi che si svolgono nel medesimo spazio di tempo in luoghi lontani l’uno dall’altro e nascosti ai nostri occhi, tocca un virtuosismo stupefacente nell’impetuoso preludio del secondo atto. Giù, sulla terra, la fuga della coppia ebbra d’amore e fidente nella spada appena conquistata, sulle cui tracce già corre Hunding con i suoi uomini e la muta dei cani, implacabile come una belva ferita; in alto, nel mondo “”superiore”” degli dei, sulla cima di una montagna rocciosa, l’incontro luminoso e felice fra Wotan e la figlia Brunilde. A sipario chiuso, noi non vediamo tutto questo, ma lo sentiamo distintamente attraverso la musica. Questa potente concentrazione drammatico-musicale del preludio, rispecchiandosi nella trasformazione tematica come nelle tensioni armoniche, nelle relazioni ritmiche come nella scelta, importantissima, di registri e timbri, si distribuisce nell’arco di cinque scene accomunate da una profonda unità linguistica, di tipo affatto nuovo rispetto a tutti i precedenti lavori del compositore. Non v’è dubbio: è col secondo atto della Walkiria che comincia la vera, cosciente evoluzione di Wagner.
In un ottimistico clima sonoro, stridente di contro alla tenebrosa oscurità delle due scene successive, la Walkiria appare per la prima volta nelle sue vesti di vergine guerriera (Brünnhilde, per noi Brunilde, significa “”colei che combatte con la corazza””). E una apparizione breve, drammaticamente necessaria solo per muovere le future contraddizioni di Wotan, ma caratterizzata splendidamente dal grido di guerra (“”Hojotoho!””), nucleo tematico della celebre cavalcata del terzo atto, tutto contesto di terribili audacie (a freddo, per di più!) nella tessitura vocale che, con salti amplissimi, dal registro grave si spinge fino al do acuto. Con l’arrivo di Fricka, venuta a reclamare i diritti della legge e del costume violati dai gemelli incestuosi, Wotan comincia ad assumere quei contorni che ne faranno il protagonista indiscusso dell’opera. Questa lunga “”scena di vita coniugale”” statica e grigia, con da una parte Fricka, dea del focolare domestico, del matrimonio e della famiglia, eppure sposa esacerbata, sterile, tradita e sovente abbandonata, e dall’altra Wotan, padre degli dei, custode delle leggi ma di fatto assertore ardito della libertà dell’eros, è quasi da ognuno giudicata una caduta dall’elevato stile tragico che permea tutta la Walkiria. Vedendovi uno spaccato di vita e di contrasti borghesi, più ottocenteschi che mitici, alcuni spettacoli accentuano una ambientazione datata all’epoca di Wagner, con risultati affascinanti ma rischiosi e forzati. Non sta comunque a noi sbrogliare simili nodi. Certo è che la ricchezza tematica, le sottigliezze armoniche, i trapassi psicologici e la incisività del dialogo, evidenti già nel testo nelle continue metamorfosi della materia musicale, non giustificano affatto l’ipotesi di una caduta d’ispirazione né, come si è tentato, una lettura univocamente autobiografica di questa scena. Basterebbe por mente alla necessità drammatica di essa come passaggio graduale verso la presa di coscienza di Wotan, verso la tremenda esplosione di una elementare grandezza tragica quale ci appare nel grande monologo della seconda scena. Monologo, come già dicemmo, anche se realizzato nel dialogo con Brunilde: dove Wotan, novello Edipo, apprende fino in fondo l’intimo inganno cui la sua ansia di liberazione e di riscatto soggiace. Scena davvero fondamentale e terribile, come sembrò allo stesso Wagner in una rivelatrice lettera-confessione a Liszt: “”Nelle mie ore di scoraggiamento, al cessare dell’estasi, mi sgomentava più di tutto la gran scena di Wotan, massime nella sua terribile rivelazione a Brunilde; cosicché a Londra ero giunto perfino al punto di rinunciare affatto a tale scena. Per prendere una decisione in proposito, pigliai l’abbozzo ed eseguii al pianoforte la scena con tutta la necessaria espressione; per fortuna trovai che il mio spleen era ingiustificato, e con una esecuzione acconcia fa un puro effetto musicale ed incantevole””.
Alle ragioni di Fricka, che esce trionfante, Wotan non può ormai opporre che una cupa meditazione, mentre dall’orchestra tre tromboni fanno impietosamente udire il tema della maledizione di Alberich. Ora in orchestra, su un prolungato pedale di re grave di fagotti e clarinetto basso, si staglia, ripetuto cinque volte di seguito dai violoncelli, un nuovo motivo, tortuoso e pesante, emerso dal precedente dialogo con Fricka: espressione della collera, della disfatta e infine dell’angoscia che attanaglia il dio sulla soglia del declino. Wotan “”lascia cadere il braccio con gesto d’impotenza e abbassa il capo””: “”nel mio stesso laccio mi sono preso, io il meno libero di tutti!””- sono le sue prime parole. E’ chiaro che siamo al momento della verità. Nel canto di Wotan l’elemento predominante è l’intensità, in oscillazione costante fra sussurro e grido, accento brutale ed estrema dolcezza di pianissimi al limite dell’udibile. Brunilde, il capo appoggiato sulle ginocchia del padre, ne ascolta la confessione con trepido interesse. Nel lungo recitativo ritornano i momenti salienti della storia passata, accompagnati dai temi che li videro accadere: e sono reminiscenze già avvolte nel rimpianto, ricordi di un tempo perduto. Ecco le origini del male che rode gli dei, la maledizione dell’anello che tutto corrompe; ecco l’origine di Brunilde e delle sue sorelle Walkirie generate da Erda; ecco, al culmine della rievocazione, il grido lancinante a esprimere la folle speranza in un eroe che liberi gli dei dal patto funesto: grido che tosto si muta in disperazione, angoscia, desiderio di morte. Das Ende, das Ende, la fine, la fine! E là, quando la seconda volta il grido si attorce nelle spire di un mortale do minore (pianissimo, contro il violento fortissimo della prima volta su un inatteso, svettante accordo di mi maggiore), risuona il tema di Erda, figura del destino alfine compreso, alfine ammesso, alfine desiderato: quel destino che Alberich, ben più operoso di Wotan per la potenza dell’odio, si incaricherà di compiere. Ma non basta. Il furore del desiderio di una catastrofe, già al suo vertice, si acuisce ancora in un crescendo orchestrale spaventoso allorché Wotan giunge a benedire l’opera di annientamento del figlio del Nibelungo, mezzo di distruzione finale di tutto e di tutti. Carattere, è stato osservato, tipicamente e pericolosamente tedesco, e fors’anche un po’ paranoico: la distruzione, anzitutto la autodistruzione, come panacea di ogni male. Ha ragione chi ha ambientato questa scena in un bunker di Berlino tristemente famoso, in pieno 1945? E’ questo il senso della rinuncia ad agire con cui Wotan, accettando il destino, compie l’unico atto di libertà a lui possibile?
Alla figlia che invano ha tentato di opporsi, il padre comunica l’esito di un groviglio inestricabile di destini: Siegmund morrà, reo di colpe che trascendono il suo stesso agire. A Brunilde sia ora affidato il compito di apprestargli morte sul campo, come è dovuto a un eroe. A questo punto i temi, nella tragica caduta delle linee melodiche, dei registri tesi fino a spezzarsi, dell’intensità che si abbatte dal fortissimo al mormorio, sembrano straziarsi in brandelli. Poi, improvvisamente, in orchestra si fa silenzio, un silenzio rotto appena dal richiamo dei timpani. Da questo silenzio, da quei brandelli, dopo le ultime parole di una Brunilde rassegnata, sorgeranno nuovamente il tema del crepuscolo in violoncelli e contrabbassi, e quello dell’amore dei Welsunghi, sospirato dal corno inglese.
Un’agitazione via via crescente segna il passaggio dalla seconda alla terza scena, preparando l’ingresso di Siegmund e Sieglinde in fuga. Al canto tenero e appassionato di Siegmund la donna risponde con parole di terrore e visioni allucinate. Il ritmo di Hunding incalza con la sua minaccia di morte, la tensione si fa febbrile. Uno stesso accordo di settima diminuita si ripete otto volte, fisso e selvaggio, quando al massimo del delirio Sieglinde crede di non vedere più l’amato. Una ferrea maglia di successioni cromatiche attanaglia come in una morsa i due amanti. Sieglinde, nella sua cecità veggente, predice la fine del fratello. Poi sviene.
La stupenda quarta scena (la famosa Todesverkündigung o annuncio di morte) si apre col motivo del destino (tube) prolungato dal ritmo funebre dei timpani e legato da pause dense di espressione allo straziante canto di morte (trombe sostenute dai tromboni) che dominerà tutta la scena. Ma rilevare le audacie armoniche o in assoluto i miracoli della tecnica compositiva wagneriana significherebbe cogliere solo l’involucro esterno di una pagina mistica e umanissima, dove genio e commozione, enigma quasi insondabile e massima chiarezza di accenti si mescolano a un senso di attesa e di inquietudine dolorosa. Brunilde si avvicina lentamente, scortata dal tema del Walhalla; posa un lungo sguardo su Siegmund, lo chiama per nome e gli annuncia il destino di morte. Egli risponde assumendo su di sé la melodia che all’inizio era risuonata in orchestra come canto di morte, quasi a voler accettare spontaneamente quel destino. Tre temi funebri si concentrano a questo punto contemporaneamente, ognuno affidato a un elemento specifico del linguaggio musicale: armonia (accordi del destino), melodia (canto di morte) e ritmo (pulsazione dei timpani). Quando però Siegmund apprende che nel Walhalla, cui è destinato, non potrà seguirlo Sieglinde, in un repentino moto di ribellione minaccia di uccidere la sorella con la spada Nothung, alla quale Wotan ha tolto ogni potere in battaglia. E allora che Brunilde, in un’impennata di amore e di pietà per l’eroe che cresce nel grembo di Sieglinde, decide di trasgredire l’ordine ricevuto e promette di salvare i fratelli, accordando a Siegmund la vittoria.
Un breve interludio sinfonico che sembra riassumere, potenziato più che placato, tanto tumulto drammatico e musicale, conduce alla quinta e ultima scena dell’atto. Siegmund ritorna verso Sieglinde addormentata, e i temi del “”vero”” amore terreno ripassano, dolci come un raggio di sole prima delle tenebre, per l’ultima volta. Tutto converge ormai sui colori e sul mondo sonoro individuati dalla Walkiria: la sua pietà, i suoi ritmi guerreschi. Non solo: d’un tratto ci accorgiamo che Sieglinde dorme vegliata da un motivo che prefigura il sonno di Brunilde alla fine dell’opera.
L’azione, che si è svolta con logorante lentezza nelle prime quattro scene, precipita, nell’ultima, in catastrofe fulminea. Tutto, nel corrusco paesaggio musicale, si fa adesso concreta minaccia. Si ode, fuori scena, lo squillo del corno di Hunding, mentre Siegmund si avvia alla battaglia. Sieglinde, rimasta sola, si risveglia come da un incubo, rivivendo allucinata il trauma della sua infanzia, il rogo della casa, la violenza subita. Violenza chiama violenza. Sul tema del patto e della schiavitù all’anello la lancia di Wotan spezza la spada di Siegmund che, disarmato, cade trafitto da Hunding. I due simboli originari e fondamentali della Tetralogia, la lancia e la spada, cozzano qui per la prima volta l’uno contro l’altro (dai frammenti raccolti da Brunilde, Nothung risorgerà forgiata da Siegfried. E nel Siegfried sarà la spada a mandare in frantumi la lancia di Wotan). Siamo all’epilogo dell’atto: mentre Hunding muore folgorato dal gesto sprezzante di Wotan, Brunilde con una cavalcata selvaggia ha portato via Sieglinde. In preda a terribile furore, il dio si slancia all’inseguimento per punire colei che ha osato trasgredire l’ordine ricevuto, seguito, come un presagio funesto, dal tema del crepuscolo che si dispiega ora in un ampio arco, in tutta la sua interezza.
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L’inizio del terzo atto riporta al clima tempestoso, spazzato dalla furia degli elementi, del preludio del primo e della fine del secondo atto. A sipario chiuso, non un preludio questa volta, ma già un’azione musicale colta nel suo svolgersi: è la famosa, famosissima cavalcata delle Walkirie. Qui Wagner si fa ammirare una volta di più come scaltrito manipolatore di effetti musicali: spessore fonico inaudito, intrecci contrappuntistici fittissimi, ma anche metamorfosi di colori e di timbri sulla fissità di un’unica cellula ritmica ternaria. In tale groviglio orchestrale svettano le otto voci delle Walkirie, spinte audacemente verso l’acuto, fra spasimi di cromatismi, trilli e contrappunti ritmici, ma soprattutto, nel corso della scena grandiosa, combinate a formare degli insiemi, un vero coro. Ed è la prima volta che nella Tetralogia accade qualcosa di simile. Senza soluzione di continuità, la cavalcata si muta nella fuga di Brunilde, inseguita da un tremendo uragano dentro il quale è Wotan stesso. Invano Brunilde invoca la protezione delle sorelle, non per se stessa, ma per Sieglinde prostrata che chiede solo di morire. Il canto della donna, nobile e semplice, intriso di estrema malinconia, sembra venire di lontano. Anche il passato, per lei, non è che vano rimpianto. Ma alla rivelazione di Brunilde (“”un wälside ti cresce in grembo””), uno scoppio di gioia improvvisa e il grido: “”salva mio figlio! salva la madre!”” Tutto si svolge in un attimo, in una concitazione frenetica. Sieglinde fuggirà da sola verso oriente, dove Fafner custodisce il tesoro dei Nibelunghi e Wotan non ardisce inoltrarsi; Brunilde, intanto, lo tratterrà. L’addio fra le due donne raggiunge vertici di sublimità indicibile: nel canto di Brunilde, che svela la grandezza del futuro eroe, risuona per la prima volta nella forma completa il tema di Siegfried, e il nome di Siegfried.
Sieglinde, prima di benedire la Walkiria con quanto ha di più caro, il suo dolore, intona accenti di toccante riconoscenza su un motivo nuovo, un gioiello infuocato di pura, naturale bellezza. Si ricordi questo motivo: riapparirà una volta soltanto, alla fine del Crepuscolo degli dei, per celebrare la redenzione d’amore. Esso non guarda più a Tristano, ma a Parsifal, ultima giornata nel lungo cammino del dramma musicale wagneriano.
Con effetto teatralissimo, la voce di Wotan tuona fuori campo, mentre Brunilde si nasconde dietro le sorelle. Le parole del dio, nel furore brutale che lo acceca, sono come inchiodate dal motivo della collera alternato a quello della lancia custode dei patti (scena seconda). Quando Brunilde gli comparisce davanti, Wotan comunica la punizione: la vergine, ripudiata e degradata dal suo rango di Walkiria, addormentata in sonno inerme, sarà svegliata e posseduta dal primo uomo che la troverà sulla sua strada. I temi “”oscuri”” si addensano annunciando le più paurose minacce. Le Walkirie, che hanno tentato una poco convinta difesa della sorella in un episodio fugato curiosissimo, quasi ironico, vengono rudemente scacciate. Wotan e Brunilde si ritrovano nuovamente soli, l’uno di fronte all’altra. Una grande linea melodica (una vera “”melodia infinita”” wagneriana) sorge dal profondo nel clarinetto basso, passa poi nel corno inglese e nel fagotto, introducendo la terza scena, l’ultima e più commovente dell’opera.
Disperazione e silenzio, ancora. Nella quiete che ha seguito l’uragano, il crepuscolo vespertino cede poco a poco alla notte. Brunilde, mentre l’orchestra tace, chiede a se stessa, prima ancora che a Wotan, dove risieda in realtà la colpa di cui si è macchiata. Nell’aver disubbidito a un comando empio, imposto da Fricka? O nell’aver ubbidito alla voce del cuore, alla volontà più intima di Wotan? In questo dialogo, nonostante la profondità dei concetti e l’alto virtuosismo della forma poetica, la musica trascende di gran lunga il testo, raggiungendo una dimensione veramente sinfonica, puramente musicale. Sotto questo aspetto, siamo di fronte al più grande finale d’opera di Wagner. Perfino il canto non è più qui veicolo del dramma, ma valore musicale astratto, melodia assoluta. Ciò è evidente non soltanto nel punto di massima concentrazione sinfonica (l’addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco), ma anche prima. Basterà citare due esempi: il ricordato canto solo di Brunilde all’inizio della scena (formato di due parti: un antecedente che si innalza dal grave verso l’acuto sulla spinta del salto ascendente di settima che era appartenuto a Siegmund nel primo atto; e, dopo una lunga pausa, un conseguente che ripercorre il cammino inverso, dall’acuto al grave, sulle parole: “”così nel profondo tu mi abbassi””); e, verso la metà, il meraviglioso canto di Brunilde in mi maggiore, con cui ella, imponendosi a Wotan, rivela le ragioni del suo agire: l’amore come giustificazione della disubbidienza. Ma è nella parte finale dell’opera che la musica celebra il suo trionfo, con intensità espressiva ancor maggiore. Wotan, cedendo alla richiesta di Brunilde, ha acconsentito a recingere la rupe, dove ella dormirà il lungo sonno, con una cortina di fuoco che la protegga dall’uomo vile e comune. L’addio alla figlia amatissima nasce da una intima, disperata rinuncia (duplice rinuncia: verso se stesso e verso Brunilde), ma si volge in estatica commozione al pensiero radioso del venturo Siegfried, “”il solo più libero di me, dio!””. A questo punto un oceano smisurato di chiarore pervade l’orchestra, per suggellare, nella definitiva consacrazione alla luce della tonalità di mi maggiore, la vittoria dell’amore. Dopo quell’ultima, sconvolgente esplosione sinfonica, ritorna la pace, in una trama musicale più distesa, sovrastata dalla melodia ipnotica e cullante del sonno fatato di Brunilde, fino all’episodio delicatissimo del bacio che addormenta la Walkiria. Poi, l’incantesimo: Loge, dio del fuoco, evocato dalla lancia sul tema del patto, si mostra per compiere l’opera. La magia del fuoco, il guizzare di Loge a noi ben noto dall’Oro del Reno, diventa magia sonora in orchestra, un vero miracolo di scrittura strumentale (all’organico della grande orchestra wagneriana si aggiungono anche un Glockenspiel e sei arpe: con quale scintillante trasparenza!). Fuoco magico e sonno magico sono ormai tutt’uno. Le ultime, solenni parole di Wotan (“”Chi della mia lancia teme la punta, mai non traversi il fuoco!””) risuonano sul tema di Siegfried. E un comando o una profezia dell’eroe senza paura che, dopo aver spezzato la lancia, verrà a risvegliare Brunilde? Con un lampo di sconcertante ambiguità Wagner ci congeda dalla prima giornata della Tetralogia. Mentre gli ottoni amplificano, grandioso, il tema di Siegfried, i violoncelli indugiano accorati sul canto dell’addio di Wotan. Ed ecco, come a un richiamo, ma perso nelle faville del fuoco, ancora una volta appare il motivo del destino. Così nel tumulto, nel dolore della rinuncia e della impotenza, volgendosi indietro nella notte, Wotan sparisce dalla nostra vista.
Da questo delirio che incendia intorno a noi la notte silenziosa, sorgerà un giorno l’amore?
Musica Viva, n.12 – anno XVIII