Il veggente degli abissi
Non era previsto che Michelangeli e Celibidache tornassero a suonare insieme così presto, dopo il concerto specialissimo del giugno scorso, quando l’antica amicizia si era rinsaldata per festeggiare l’ottantesimo compleanno del direttore, in modo così intenso da sembrare davvero un evento irripetibile. Della partecipazione del pianista al concerto inaugurale della nuova stagione dei Münchner Philharmoniker non v’era traccia nel programma ufficiale, e la notizia si era sparsa quasi clandestinamente nel corso dell’estate, in piene ferie, costringendo gli appassionati a rientri frettolosi per accaparrarsi i biglietti delle due serate, messi in vendita un po’ provocatoriamente attorno a Ferragosto, e comunque andati esauriti nell’arco di poche ore. L’attesa era accresciuta dal fatto che Michelangeli avrebbe suonato il Concerto in la minore di Schumann, ossia in un certo senso interpretato se stesso attraverso uno dei suoi proverbiali cavalli di battaglia: e niente sembrava più attraente dell’idea di una sfida al vertice di un modello ormai entrato nella storia dell’esecuzione pianistica moderna.
Chi abbia assistito a entrambe le esecuzioni, come nel nostro caso, a distanza di un sol giorno, ha avuto la rivelazione del motivo che spinge Michelangeli a tornare sempre sugli stessi pezzi, e soprattutto su un pezzo come questo, tormentato e squilibrato su versanti diversi, del linguaggio, della forma, della tecnica e del contenuto espressivo.
La padronanza assoluta della pagina musicale nei dettagli più particolari, incontrovertibile proprio nella saldatura di una tensione proiettata all’infinito con la chiarezza abbagliante del minimo segno reso in sé significante, è la premessa di una ricreazione che unisce la massima libertà dell’invenzione rapsodica alla logica evidentissima di nessi e relazioni organizzati in una visione d’insieme sommamente calcolata. Solo che questo calcolo, nel corso dell’esecuzione, della singola esecuzione, segue ogni volta percorsi e associazioni diversi; e se alla fine il risultato giunge ad assomigliarsi – secondo la vecchia regola che il prodotto non cambia invertendo l’ordine dei fattori – il modo di arrivarci si differenzia ogni volta in maniera chiaramente sensibile. In altri termini: Michelangeli non suona, non ha mai suonato lo stesso Concerto, ma sempre un Concerto diverso, anche quando per avventura il titolo è lo stesso. Tornare sugli stessi titoli è dunque un mero accidente, un modo di esplorare l’intera letteratura pianistica e ancor più l’intera gamma delle possibilità offerte dallo strumento pianoforte. E solo così facendo l’accidente diviene universale, l’attimo ripetuto, eternità.
Sarebbe banale aggiungere che il potere di fascinazione non si basa tanto sui vezzi esteriori di cui Michelangeli si compiace – mascheramento lucido dei suoi travagli più intimi – quanto sulla forza incommensurabile di produrre emozioni inattese. Sta però il fatto che queste emozioni inattese sono frutto di un calcolo, dove la verità, svelamento ultimo della maschera, è la conseguenza dell’artificio elevato alla massima potenza. Come l’artificio possa diventare verità, l’atto di suonare in pubblico esperienza che nega il contatto e il calore, e insieme ci conduca nel cuore della musica e di noi stessi, trasfigurandoci, coinvolgendo intelletto e anima, è un segreto di cui Michelangeli conosce, miracolosamente, la chiave. E poco importa se sia solo un illusionista o un veggente riemerso dal fondo di un abisso. Ancor più sorprendente che Michelangeli abbia eseguito il Concerto di Schumann ribaltando la seconda sera il percorso della prima. Non l’impostazione di fondo, si capisce. La quale si potrebbe, presa globalmente, intendere nel senso di una lettura antiromantica, con puntate neoclassiche. Altissima la posta in palio: dimostrare che il nitore strumentale prodigiosamente realizzato con supremo distacco non azzera il contenuto espressivo, ma anzi lo intensifica fino a dare, del romanticismo, un’immagine tanto depurata quanto eloquente. L’interpretazione diviene così non ricerca di uno stile storicamente definito, convenzionalmente delimitato, ma tensione verso l’assoluto, sintesi di esperienze che si consumano nell’ambito della forma e del tessuto compositivo attraverso la riflessione e l’emozione.
Per spiegarci meglio, prendiamo in considerazione l’aspetto che maggiormente colpisce nell’interpretazione di Michelangeli: il peso specifico posto sull’elemento della cantabilità schumanniana. Si tratta, per lui, di un equilibrio instabile, dove la negazione dell’immediatezza – una cantabilità semplice e distesa – si risolve in affermazione di un lirismo tragico, in freddezza che brucia, o viceversa in calore incandescente raggelato. Posto che il punto di equilibrio sia nell’assolutizzare l’instabilità per mezzo della chiarezza della resa strumentale, risplendente di luce propria, per raggiungere e stabilizzare quel punto continuamente differito s’apre un ventaglio di possibilità e di strade che Michelangeli non sembra voler escludere a priori, ma anzi percorrere secondo l’estro del momento. Può così accadere che la prima volta Michelangeli opti per una progressiva conquista della cantabilità come pienezza raggiunta alla fine da una mancanza di canto drammaticamente sottolineata all’inizio, e la sera dopo, quasi riprendendo ciclicamente il discorso da dove l’aveva lasciato, inverta l’itinerario, e da una pienezza affermata all’inizio operi un progressivo svuotamento della cantabilità, fino a ridurla nulla e silenzio, dissolvenza di fantomatiche coordinate spazio-temporali, quelle stesse che sembravano individuarsi nella costruzione a incastro della precedente ricomposizione. Questo duplice processo di ricomposizione e scomposizione (ma l’ordine potrebbe naturalmente essere invertito o variato), se da un lato annulla l’oggetto in sé, ossia la composizione in quanto tale, fissata una volta per tutte, dall’altro coglie un fattore essenziale dell’opera di Schumann, e forse per Michelangeli di tutta la musica interpretata: l’anelito a prolungare all’infinito le tensioni dei suoni organizzati in pensieri e sentimenti, e a fare del possesso assoluto di un pezzo una condizione perenne, eterna, di passione.
E probabile, anzi certo, che Celibidache non condividesse nulla di questa impostazione; era però in grado di capirla, e di assecondarla senza riserve. Soprattutto di intuirne la portata: ed era allora un piacere vedere come modificasse un tempo o un respiro, un accento o una dinamica, e sostenesse il dialogo al mutar d’ogni minima prospettiva.
Le virtù dei grandi si manifestano anche nell’umiltà con cui sanno fronteggiare le più impervie avventure dell’interpretazione sul terreno dell’inaudito. E quando rimase solo, il vecchio maestro seppe senza fatica ritrovare le sue certezze, le sue nostalgie e le sue meditazioni sul tempo che passa e sulla musica che non ha ascese e cadute, abissi e redenzioni, strade molteplici in cui perdersi e ritrovarsi, ma solo una missione da compiere: celebrare il rito della grandezza e custodirne i valori con la fedeltà degli eletti. La passione secondo Michelangeli. Il Vangelo secondo Celibidache.
Musica Viva, n. 11 – anno XVI