… E io contraddico

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Peter Stein, non solo regista: mina vagante del teatro contemporaneo, autentica star, genio provocatore, ex enfant terrible

Difficile parlare di musica con Peter Stein. Non è il suo campo, né intende entrarci. A Salisburgo, dove lo abbiamo incontrato, è stato chiamato a sovrintendere alle manifestazioni del settore prosa, per rinverdire le gloriose tradizioni di Hofmannsthal e Reinhardt, ossia di una stagione aurorale, quasi mitica, del Festival: e i risultati si son visti subito, non solo nella sua splendida messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare alla Felsenreitschule, ma anche nella tensione e nell’impulso che ha saputo dare all’intero programma, cosa che non accadeva da anni. Tuttavia Stein era e rimane un personaggio scomodo, un vulcano di idee e una miniera di contraddizioni, che si sciolgono solo nell’entità concreta delle sue proposte e delle sue realizzazioni artistiche. A 55 anni l’enfant terrible della scena tedesca, il creatore di quel tempio del nuovo teatro dell’avanguardia classica che fu la Schaubühne berlinese (lui stesso ne parla ormai al passato, ora che se n’è venuto via sbattendo la porta) non ha smesso i panni di sempre, quelli dell’outsider e del provocatore cui tutto si perdona in forza del suo autentico genio: una star nel senso più pieno del termine, una mina vagante nel regno efficientisticamente impiegatizio e professionale instaurato a Salisburgo da Mortier. Uno che le star non le vorrebbe vedere effigiate neppure nella pubblicità delle vetrine dei negozi, e forse non sospetta di essersene messa in casa una che gli darà molto filo da torcere.

Dalla “”politica culturale””del nuovo corso di Mortier, del resto, Stein prende più di una distanza. Ciò che accade in campo musicale, in fondo, non è affar suo. Ma si schiera apertamente, e non solo per dovere d’ufficio, dalla parte dei registi, molti dei quali sono suoi amici e compagni di strada da anni. Ursel e Karl-Ernst Herrmann, per esempio, suoi collaboratori fissi in molti, memorabili spettacoli alla Schaubühne.

Quello che ha fatto Muti (anzi, Riccardo, come lo chiama lui) è vergognoso. Soprattutto perché Riccardo è un grande artista, che ammiro molto e di cui ho comprato tutti i dischi. Non si possono trattare gli Herrmann come cialtroni incapaci, questo è inammissibile. Riccardo sapeva benissimo che tipo di regia avrebbero fatto gli Herrmann; checché ne dica Mortier, la regia della Clemenza di Tito era la stessa di dieci anni fa a Bruxelles: esiste anche un video a dimostrarlo. Poteva benissimo non essere d’accordo, questo è legittimo, ma fare tutto quel casino, dire: questa regia è merda, andarsene a una settimana dalla prima, no, così non si fa. (Pare che, dopo mafia e pizza, anche casino e merda facciano ormai parte dei contributi italiani al vocabolario internazionale).

Eppure lo spunto sarebbe stato interessante per un discorso sulla regia d’opera, sui valori della musica in rapporto al testo, eccetera. Ma è difficile, l’ho detto, portare Stein su un binario prefissato, che forse neppure l’interessa. Meglio allora lasciarlo andare a ruota libera, per conto suo.

Ma poi chi si credono di essere questi direttori d’orchestra, i depositari della verità? Loro non hanno dubbi, sono oracoli che parlano in nome del compositore, beati loro. Mala vita, il teatro che cosa sono se non dubbio, ricerca, discussione, collaborazione? Raggiungere un piccolo brandello di verità è già un miracolo, e quando l’hai afferrato, o credi di esserci arrivato, ecco che ti sfugge. Ti guardi intorno, e cerchi nel volto di un attore, nello scorcio di una scena, nella frase di un testo un appiglio a cui attaccarti. E tutto ricomincia da capo. E’ meraviglioso e terribile insieme. Brevi istanti di un eterno tormento. Il mio pessimismo non ha limiti, è vero; ma è questo che mi spinge ad andare avanti, a fare Shakespeare, e a fare Faust per cercare una risposta ai miei dubbi.

Il direttore d’orchestra è però il garante dell’integrità del testo in rapporto alla musica, che ne è l’elemento distintivo, cui occorre serbare fedeltà.

E allora facciano loro anche la regia. Qui a Salisburgo ne abbiamo già avuto uno, il più grande. Karajan, certo. Se chiudevi gli occhi, venivi trasportato in un mondo di sogno, di estasi. Se li aprivi… Ecco, quelle erano regie di merda. Il trionfo della morte del teatro, a maggior gloria della musica e naturalmente del demiurgo che officiava il rito. A suo modo una cosa molto affascinante e istruttiva. Quando ancora stavo a Monaco e incominciavo a fare teatro, quando eravamo tristi e sfiduciati, io e i miei colleghi, lo sa che rimedio usavamo? Venivamo a Salisburgo a vedere quelle brutte regie, e ci dicevamo: se qui, nel festival più importante del mondo, le cose stanno così, forse il nostro lavoro, le nostre idee non sono inutili. Ci sentivamo rinfrancati, noi piccoli piccoli, e motivati. Era tutto molto infantile, ma funzionava.

E oggi a Salisburgo c’è arrivato lei, con molti altri suoi colleghi. Una rivincita?

Oh no, quei tempi sono passati. Non cerco rivincite, ma solo la possibilità di lavorare secondo le mie capacità. E spero di avere successo.

Di critica, di pubblico?

Non credo a spettacoli incensati dalla critica ma disertati dal pubblico. Se il pubblico non viene a teatro, vuoi dire che lo spettacolo non vale abbastanza. Il problema è che spesso s’incontrano resistenze che nulla hanno a che vedere con la qualità dello spettacolo. Ma, più o meno, è sempre stato così.

Il ricambio di pubblico a Salisburgo può in effetti essere un problema, non foss’altro che per l’alto costo dei biglietti. Mortier parla di un pubblico più giovane, più disponibile alle innovazioni.

Dio mio, non sono un darwinista, ma credo all’evoluzione della specie del pubblico. Per il mio Giulio Cesare ho preteso un largo contingente di biglietti a 200 e anche 100 scellini (venti, diecimila lire), ma non sono stato a controllare il reddito di coloro che li acquistavano. Io, per esempio, preferisco sedere in fondo anche quando potrei stare in prima fila, mi piace vedere lo spettacolo attraverso le teste degli altri spettatori, lo trovo più eccitante. Conosco invece persone che se non possono stare nelle prime file rinunciano ad andare a teatro: e se c’è la passione, si trovano anche i soldi. Quanto alle innovazioni: credo che Mortier, nell’opera, voglia riequilibrare l’aspetto dell’interpretazione scenica senza mortificare quella musicale. Mi sorprende che si sia voluto far passare Mortier per un affossatore dei valori musicali, con crociate anche un po’ ridicole. Non è un ingenuo, sa benissimo che a Salisburgo più che altrove ci si aspettano grandi interpretazioni musicali. Lei ha visto e sentito Da una casa di morti di Janàček? Non è uno spettacolo “”degno”” di Salisburgo? A parte il fatto che quest’idea di Salisburgo torre d’avorio della Musica con la maiuscola mi fa un po’ ridere. (E ride davvero). Anche Mortier ha le sue idee. Lasciatelo lavorare e poi giudicate, se così vi piace. Nessuno ha mai pensato che dopo di noi sarà il diluvio.

Né diluvi né tempeste, dunque. Ora che l’uomo nero si è placato, forse è il caso di ritornare sull’argomento che più ci sta a cuore. Magari aggirando l’ostacolo, per prenderlo in castagna.

Lei ha messo in scena di recente Pelléas et Mélisande di Debussy diretto da Boulez prima a Cardiff, con la Welsh National Opera, poi allo Châtelet di Parigi, con gli stessi complessi. In precedenza, nel campo dell’opera, aveva affrontato soltanto, curiosamente, due Verdi, Otello e Falstaff, sempre a Cardiff. Possiamo parlarne un po’?

Già, Otello e Falstaff. Mi interessava verificare sulla scena queste trasposizioni musicali da Shakespeare, scoprirne per così dire la dimensione operistica, l’una tragica, l’altra comica. E’ passato qualche anno da allora. Gli spettacoli filavano, ma fino a un certo punto: forse erano sbagliati i presupposti, ossia partire da Shakespeare, che conoscevo bene, per arrivare a Verdi, che non conoscevo. Del resto si trattava di allestimenti in un certo senso didattici, con cantanti giovani, sperimentali e nati per una compagnia di giro; che difatti girarono molto, soprattutto in teatri piccoli e di fortuna: e anche questo era più shakespeariano che verdiano. Fu comunque un’esperienza piacevole, soprattutto per le condizioni di assoluta tranquillità, senza troppe pretese, in cui lavoravamo, con pochissimi mezzi, scoprendo cose che non sapevamo e divertendoci a metterle alla prova. Ciò mi ha spinto ad accettare, l’anno scorso, di fare Pelléas: anche se qui c’era Boulez, una presenza determinante.

In che senso?

Boulez (anzi Pierre, naturalmente) ha analizzato con me la partitura e il libretto nota per nota, frase per frase. E ciò molto prima che cominciassero le prove in teatro. Per sei settimane abbiamo poi lavorato coi cantanti, con l’orchestra, sulla scena. Abbiamo discusso su tutto, prendendoci anche il tempo per riflettere. Sono molto grato a Pierre per questa sua disponibilità. Da quale altro direttore d’orchestra potrei aspettarmela oggi? E i cantanti? Dovrei rincorrere gli uni e gl altri fra un aereo e l’altro, pregarli gentilmente di starmi a sentire, loro che sono tanto occupati? Io sono abituato ai tempi della prosa, agli attori, alla stabilità delle compagnie: nella lirica si programma tutto con largo anticipo, ma poi il tempo per provare, per stare insier e conoscersi è poco. E forse dopotutto non interessa a nessuno.

Forse il punto è proprio questo. Io ho visto lo spettacolo a Parigi. Ciò che colpiva era la perfetta aderenza della regia alla musica, pur nell’interpretazione originalissima che ne dava Boulez. E ancor più sorprendente era il fatto che lei avesse rispettato ogni didascalia del libretto, con un acume a dir poco raro, e nello stesso tempo ne risultasse una visione realisticamente accesa, passionale, straordinariamente viva e vera, lontana mille miglia dagli stereotipi simbolisti e impressionisti. In altri termini, una regia fedele con una cifra molto personale.

L ‘appassionata arringa mette in sospetto Stein, che l’accoglie prima a bocca aperta, poi con una smorfia. Eppure ero così fiero e sincero mentre la pronunciavo. Una folgorazione: gli artisti, intendo i veri, grandi artisti, non sono mai vanitosi, perché le loro misure sono, o dovrebbero essere, altre. Ed è ciò che da ultimo li distingue.

Lei era alla prima?

No, credo fosse la terza o quarta recita.

Peccato, se come mi par di capire lo spettacolo le è piaciuto, sarebbe stata un’esperienza istruttiva. La sala, che peraltro non era neppure pienissima, cominciò a rumoreggiare già alla fine del primo atto, e alla conclusione dell’opera furono molti di più i fischi e le proteste degli applausi. Senza contare le critiche, che praticamente ci demolirono. Boulez tornava a dirigere a Parigi dopo non so quanti anni, c’era stato l’affare della Bastille, dove quella sera cantava Pavarotti, l’ostilità nei nostri confronti era palese, non contava più in prima istanza il lavoro che avevamo fatto. Ed evidentemente la mia regia non era più così “”fedele”” come lei dice. O quantomeno troppo poco simbolista e impressionista. D’altronde, sono tutti termini di cui fatico a capire il significato. Io ho realizzato il testo come lo sentivo e vedevo in teatro.

Diavolo d’uno Stein, uomo di pietra se il nome non inganna: capisco dove vuoi andare a parare, al tutto è relativo. Scelgo allora la difesa in arrocco.

Forse a qualcuno poté dispiacere un Debussy ripulito delle consuete, fumose convenzioni, tanto fremente e palpitante sulla scena quanto asciutto, doloroso nella musica. Ma nessuno potrebbe negare che vi fosse congruenza fra ciò che si vedeva e ciò che si ascoltava.

Oh, se è per questo fu negato, fu negato eccome. Insomma, ci accusarono di aver falsato Debussy. E chissà, forse da un certo punto di vista era anche vero. Ogni interpretazione è la messa a fuoco di un obiettivo, che non esclude altre angolazioni. Per questo non credo alle verità assolute.

Il suo realismo, la sua ostinazione a scavare dentro il testo per trovarne i cardini fondamentali, su cui costruire l’edificio della messinscena, sono comunque qualcosa di diverso dalle astrazioni particolari del cosiddetto teatro d’idee tedesco che oggi impera, anche a Salisburgo.

Ognuno segua la sua strada e faccia le sue scelte. Ma con serietà, e senza credere di avere la verità in tasca. Che posso dire di più?

Quest’anno che per l’appunto Boulez è protagonista a Salisburgo, non ha pensato di portare qui il Pelléas?

Non sono mica matto. Avrebbero detto che importiamo uno spettacolo di seconda mano. E che i cantanti non sono all’altezza di Salisburgo, che nessuno li conosce.

Inutile chiedere allora perché ci hanno rifilato una Clemenza di Tito già vista a Bruxelles, si capisce che Stein, uomo d’onore non meno di Bruto, non risponderebbe. Del resto, ora l’uomo si è fatto svagato come un Peter-Pierino, quasi insofferente. Prendo tempo e decido di ripiegare sulla routine delle interviste.

Perché non fa una regia d’opera a Salisburgo?

Perché non mi hanno chiamato qui per questo.

Ma ha altri progetti altrove?

Con Pierre (Boulez) stiamo pensando a Moses und Aron di Schönberg per Amsterdam, nel ’94. Vedremo. L’offerta c’è, e l’intenzione pure.

Si era parlato anche di una possibile regia in Italia alla Scala. Addirittura della Tetralogia.

No, non credo. Gli italiani sono adorabili, davvero. Un giorno viene uno e ti dice: senta, perché non facciamo questo?

Bene, parliamone. Passano i mesi e nessuno si fa più vivo. Poi lo incontri di nuovo e quello ti fa, quasi offeso: ma insomma, non si era detto di fare quest’altro? Veramente si era detto che ne avremmo parlato. E così passano altri mesi. È adorabile, davvero. Guardi Giorgio (Strehler, suppongo). Sa cosa mi ha risposto quando gli ho chiesto di fare una regia qui a Salisburgo? Peter carissimo, mi ha detto, sia ben chiaro che io a Salisburgo ci torno solo dalla porta principale, fa un po’ tu. E io che debbo fare, spianar Salisburgo per costruirgli un arco trionfale? Ma a parte questo. Se anche si arrivasse a un contratto per una regia d’opera in Italia (dice proprio “contratto” come se si trattasse di una meta incredibile), se accettassero le mie condizioni per le prove e tutto il resto (mica vorresti anche i cantanti sempre a disposizione, vero Stein?), chi mi assicura che a una settimana dalla prima qualcuno non salti a dire che il mio lavoro fa schifo e che farei meglio ad andarmene? Sa, non sarebbe carino, anche se gli italiani sono adorabili, davvero. Grandi artisti, in tutto e per tutto.

Ho avuto un ‘alta opinione di me per non avergli risposto che a lui non accadrebbe. D’altronde, non ci metterei proprio la mano sul fuoco.

Musica Viva, n. 10 – anno XVI

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