A voi date sollievo, a me pena,
facendo a me, pover’uomo, troppo onore
Se a codesto onore io non posso sottrarmi,
sia perché io mi sento da voi amato.
Il 29 luglio Wolfgang Sawallisch ha diretto per l’ultima volta a Monaco I maestri cantori di Norimberga. Quella sera dava ufficialmente il suo addio al teatro che ha retto per ventun anni, tra alti e bassi, ma con grande, sincera passione e con risultati che presto qualcuno rimpiangerà, come è sempre accaduto. Dopo la rappresentazione, a sipario aperto, con orchestra, coro e cantanti schierati ai loro posti, a teatro ancora gremito, Sawallisch è stato festeggiato: il più autorevole critico di Monaco ed esperto wagneriano, Joachim Kaiser, ha tenuto una laudatio molto accademica e forbita, oltre che interminabile, quasi fosse lui il celebrato. Sawallisch ha risposto con le semplici, bellissime parole di Hans Sachs sopra evidenziate, traducendo in sentimenti genuini di gioioso raccoglimento un momento di velata tristezza, con la dignità e la signorilità dei veri artisti. È stato un momento emozionante. Erano da poco passate le undici, l’ora in cui il Guardiano notturno invita le genti a guardarsi dagli spettri
e dagli incantesimi e a lodare il Signore Iddio.
Sawallisch, in questi ultimi anni, si è molto adombrato per gli esiti critici di certi processi del teatro di regia moderno che anch’egli ha appoggiato, al punto da decidere in futuro di diradare assai le sue presenze nell’opera e di giurare che mai e poi mai tornerà a capo di un teatro. Eppure, come ultima nuova produzione della sua gestione, ha voluto affrontare un’opera contemporanea, Il principe di Homburg, di Hans Werner Henze, dal compositore riadattata in una nuova versione per il Cuvilliés-Theater sulla base della partitura in origine rappresentata ad Amburgo nel 1960. Senza essere il capolavoro teatrale di Henze è un’opera ragguardevole, non solo per l’eccellenza della riduzione del testo di Kleist da parte di Ingeborg Bachmann, straordinariamente attuale, ma anche per la realizzazione musicale, che oggi più di ieri sembra ottenere una sorta di quadratura del cerchio tra il rigore del costruttivismo seriale e l’immediatezza del coinvolgimento drammatico, sapientemente distribuito tra scene corali ed episodi individuali di accesa passione, su temi scottanti, teatralmente risolti anche da interludi orchestrali, che rilanciano ogni volta la tensione senza perdere il filo dell’azione. Una proposta importante, suggellata da un successo incontrastato, anzi entusiastico.
Se il pubblico di Monaco, che non è meno tradizionalista di quello di Salisburgo, ha accolto questa produzione con tanto favore, una ragione c’è. Ed è una ragione decisiva. Non sarebbero bastate la direzione musicale, pur eccellente, di Sawallisch e neppure la qualità della musica di Henze a garantirlo senza una messa in scena che non solo cogliesse i nessi interni dell’opera ma creasse anche una dimensione teatrale per così dire rivoltaall’esterno, capace di avvincere l’ascoltatore con la forza delle idee tradotte scenicamente. Lo scenografo Gottfried Pilz e il regista Nikolaus Lehnhoff hanno affrontato l’opera di Henze come si affronta un testo classico, facendolo però rivivere con scelte interpretative che lo rendevano eloquente e a noi vicino. Queste scelte erano parziali, nel senso per esempio che proponevano una visione drasticamente orientata in una direzione non storica ma esistenziale: ciò che contava era la capacità di sciogliere in immagini e gesti emozionanti la sostanza individuale del lavoro. Era una messinscena fedele? Non saprei. Era però il risultato di un progetto non astratto, che s’inverava con logica accattivante nella concretezza della rappresentazione: e a queste condizioni l’impalcatura delle ingerenze del regista, se c’era, cadeva, lasciando visibile nella sua interezza la facciata dell’edificio originario.
Ciò avveniva prima che scoppiassero le roventi polemiche salisburghesi. A Salisburgo il tema dei rapporti tra musica e teatro è stato rilanciato con forza, fino a diventare quasi guerra ideologica. È un fatto che molti ne abbiano parlato senza aver visto gli spettacoli, ma anche che molti, al tema appassionati, si siano sentiti spinti ad andare a verificare di persona. A Salisburgo prima si andava con certezze confortanti, nel bene e nel male: era un po’ come sapere che, comunque fosse passata l’annata, lì ci saremmo ritrovati con noi stessi e con abitudini consolidate. Questa volta era diverso: a Salisburgo, si diceva, ci saremmo imbattuti, amplificate dall’importanza del Festival e dalle intenzioni della nuova gestione, in cose con le quali dobbiamo fare i conti tutti i giorni, nella musica e altrove. Molta dell’insofferenza proveniva proprio di qui: dall’aver perso un punto fermo. Naturalmente per parecchi quest’aspetto aveva anche lati positivi, di attesa. Al di là delle proposte concrete, e delle loro realizzazioni, era totalmente cambiato il clima.
Che poi a Salisburgo non sia accaduto nulla di nuovo, è un fatto solo apparentemente contradditorio. Che cosa abbiamo visto in realtà? Una Clemenza di Tito vecchia di dieci anni, tutt’altro che scandalosa e irriverente verso chicchessia, solo un po’ puerile e logora nelle sue trovate da ex-avanguardia; Da una casa di morti, debutto prevedibilmente eccellente di Abbado in un’opera di Janacek (ed eccellente davvero) con una regia da perfetta era Karajan di Grüber, grondante convenzione e debita pietà per i diseredati (col che naturalmente concordiamo); una Salome da teatro di provincia tedesco, che esaltava i nostri istinti melodrammatici più intimi e veri, ancorché nascosti; una Finta giardiniera divertente nella misura in cui si decidesse di passare una serata a teatro anziché davanti alla televisione o a un buon film d’evasione. Non una sola di queste rappresentazioni ha deluso completamente le attese; non una ci ha dato la sensazione che stessimo vivendo un’esperienza irripetibile.
Erano i discorsi di sempre, ieri oggi domani, che continuavano, in modo ora più ora meno pressante: il tutto fondamentalmente nella normalità. Resta il San Francesco d’Assisi di Messiaen, opera non nuova ma degna di essere ascoltata, con due o tre momenti di verità e bellezza assolute, in cui la bravura del direttore Salonen faceva scorrere lunghi brividi d’invidia e la regia di Peter Sellars aveva agio, nelle sei ore e passa dello spettacolo, di insegnarci molte importanti cose sull’arte visiva e figurativa americana, facendoci venire una gran voglia di approfondire l’argomento, magari fuori dal teatro. Quanto ai concerti. C’era Boulez, certo, ed era una presenza significativa. Ma Boulez non ha fatto altro che ratificare la sua posizione nell’arte del secolo, come compositore e come direttore, svolgendo la lezione con inappuntabile esattezza. Quando si è trovato di fronte i Wiener Philharmoniker, nell’ultimo concerto, è diventato perfino signorile: prego, si accomodi, faccia Lei, ma no, prima Voi, che diamine, siamo fra gente civile. La vera novità era costituita solo dal fatto che tutto ciò avvenisse in un clima eccitato e instabile, come se si giocasse una partita decisiva. Decisiva di che? I più hanno identificato il nocciolo della questione nella revisione dei rapporti tra musica e dramma, nella necessità di attualizzare l’opera. O, viceversa, nella necessità che ciò non avvenga. E’ solo un pretesto. Se questa dovesse essere la vera novità del Festival di Salisburgo, avremmo passato l’estate invano. E invece l’estate non è passata invano. Forse è servita per riaffermare che l’epoca in cui viviamo sarà tanto più eccitante quanto più saprà consolidare la normalità del suo essere instabile e trovare in ciò un motivo di equilibrio. Quanto al punto specifico: di fronte all’opera d’arte nel suo complesso non esistono strategie fedeli o infedeli, innovazioni o tradizioni da salva-guardare a tutti i costi, ma solo buone o cattive realizzazioni, intuizioni felici o sbagliate. Legittimo distinguere, inutile scandalizzarsi, rimpiangendo il tempo che fu. E quale, poi? Chi cita Max Reinhardt come esponente di un’età dell’oro della regia a Salisburgo non dovrebbe dimenticare quanto egli scriveva nel 1915: “”Giacché il nostro dovere è questo: conquistare sempre di nuovo le opere che abbiamo ereditato, per possederle. Ciò significa farle rinascere a nuova vita dallo spirito del nostro tempo””. Chi non condividerebbe quest’affermazione, chi saprebbe spiegarla?
Musica Viva, n. 10 – anno XVI