Firenze, Le nozze di Figaro

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Rabberciate per Firenze

Già non sembrò carino, davvero, che, dopo essersi impegnato a realizzare per il Maggio Musicale Fiorentino e con Zubin Mehta la trilogia di Mozart e Da Ponte, il regista Jonathan Miller accettasse di anticiparne una porzione, Le nozze di Figaro, al festival di Vienna dell’anno scorso, per riparare a una analoga, sciagurata commissione data a Luc Bondy, giustamente interrotta dopo il solo Don Giovanni (direttore, in entrambi i casi, Claudio Abbado, prima della rottura con l’imperial città). Ancor meno carino è però sembrato che il regista Jonathan Miller ne portasse a Firenze un anno dopo solo la mala copia, sbiadita non tanto dal passaggio dal palcoscenico del Theater an der Wien a quello della Pergola (con conseguente riduzione e appiattimento delle scene di Peter J. Davison) quanto dalla rinuncia a proseguire sull’idea che a Vienna era risultata vincente: restituire all’opera di Mozart un tono di commedia leggera ed elegante, briosa e sottilmente inquieta, mettendo in rilievo con la recitazione e l’approfondimento psicologico dei personaggi come la finzione consapevole ne fosse la prima ragion d’essere, ma l’ultima risultasse uno svelamento della vera natura, umana e passionale, di ciascuno, fino a sfociare nel quart’atto – che a Vienna seguiva il terzo senza interruzione, con un cambio a vista del palcoscenico girevole che ripresentava la stessa scena della festa a luci spente, al calar della notte – in una resa dei conti definitiva. E solo allora si capiva che nella commedia leggera ed elegante si annidava forse un seme di tragedia, che sarebbe sbocciato altrove.

Come che fosse, lo spettacolo allora funzionava a meraviglia, soprattutto nei suoi meccanismi teatrali. Proprio ciò che non accadde invece a Firenze. Semplicisticamente si potrebbe darne la colpa a Miller per non aver avuto il coraggio o l’umiltà di cercar di ripetere papale papale quello spettacolo. Nelle Nozze, ancor più che in qualsiasi altra opera, le figure degli interpreti sono determinanti: e dunque una compagnia di canto totalmente diversa presupponeva una realizzazione fondamentalmente diversa. Così è stato. Forse non era possibile tagliare sulla prestanza un po’ grezza e sulla voce imperiosa di Thomas Hampson il personaggio del Conte aristocraticamente disegnato in punta di stile da Ruggero Raimondi, e la Cuberli di Firenze era altra personalità, scenica e vocale, dalla Studer di Vienna, cosa che ribaltava alquanto i rapporti, in prospettiva, anche tra Figaro (Michele Pertusi) e Susanna (Joan Rodgers). Ma quel che non si spiega è la trasformazione di un’idea vincente, magari da rivedere e riadattare a nuove condizioni ambientali, in una ricaduta nelle vecchie convenzioni, alla cui base sta la visione delle Nozze come di una farsa grassoccia e sbracata, dove non esiste più distinzione di ruoli e quel che conta è soprattutto far ridere alla maniera delle “”gag”” televisive. Del che, lo diciamo non troppo scherzando, Miller deve essersi convinto magari proprio guardando i nostri impagabili varietà, dopo averne appreso, s’immagina con anglosassone stupore, gli indici d’ascolto.

Grave errore. Giacché non ha capito, Miller, che proprio in Italia – ammesso che altrove sia lecito far diversamente – i recitativi di Mozart, la lingua musicale di Mozart sugli accenti idiomatici originari parlano direttamente alle orecchie di un pubblico nient’affatto sprovveduto e che prima di tutto capisce le parole, e dunque essi vanno trattati con estrema delicatezza. Risolvere in gesti esteriori, esibiti, sempre insistiti sui soliti smanacciamenti e toccamenti e sfregamenti, ciò che solo un pubblico italiano può comprendere nella sua vera essenza, doppi sensi in testa (in altre parole: aggiungere anziché ridurre), è una scelta che si ritorce a danno del regista: invitando chi guarda e chi ascolta ad allontanarsi da lui, e a stare naturalmente dalla parte di Mozart. Ma davvero Miller crede che quell’Antonio presentato come la macchietta di un perenne ubriaco che più barcollante non si può ci faccia ancora ridere? E poi, che c’è da ridere? Antonio non era mica ubriaco, ha visto benissimo Cherubino saltare sui fiori del giardino. E crede di farci un piacere, Miller, quando ci rivela in anticipo le identità dei personaggi nel gran mascheramento del quarto atto, come se tutto non stesse proprio nel fingere di non riconoscersi pur volendosi, o dovendosi, riconoscere? Non occorre mica essere dottori in psicologia (cosa che fra l’altro Miller è, almeno accademicamente) per capirlo. E da ultimo, anzi dal principio: che senso ha far eseguire l’ouverture a sipario aperto con Susanna che ricama il suo bel cappellino vezzoso, togliendo l’effetto geniale di un’opera che comincia realisticamente, come se nulla fosse, con il duettino tra lei e Figaro? Misteri.

E Mehta, che penserà mai Mehta delle sue attuali prestazioni musicali in una città che continua a tenerlo in palmo di mano, a seguirlo con affetto, ma con sempre meno gratificazioni? Che Mehta non sia riuscito a qualificare con la sua presenza pur così importante il difficile passaggio di questi ultimi anni è un dato di fatto. Attorno a lui si poteva far quadrato: e Mozart era l’occasione giusta, sul piano tanto delle idee quanto dei sentimenti. Mehta, lo possiamo ormai dire a trilogia ultimata, non ha lasciato il segno soprattutto con Mozart, adagiandosi, dopo un Don Giovanni che aveva bagliori intensi, sull’onda di una ordinaria amministrazione fatta di normale efficienza e di tranquilla routine. Quando alle Nozze di Figaro improvvisamente ci si accorge di essere distratti e di pensare ai casi propri, vuoi dire che qualcosa non funziona. In noi, naturalmente. Ma Mehta, a che cosa stava pensando lui?

Musica Viva, n. 8/9 – anno XVI

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