Brahms – Variazioni su un tema di Haydn op. 56a; Nenia op. 82; Sinfonia n. 4 op. 98.
Berliner Philharmoniker, Rundfunkchor Berlin, direttore Claudio Abbado
(registrazione: Berlino, Philharmonie, 11/1990, opp. 56a, 82; Schauspielhaus, 9/1991, op. 98; pubblicazione 1992)
Deutsche Grammophon 435 349-2
Brahms – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 83
Alfred Brendel, pianoforte; Berliner Philharmoniker, direttore Claudio Abbado
(registrazione: Berlino, Schauspielhaus, 9/1991; pubblicazione: 1992)
Philips 432 975-2
Si conclude con questi due dischi usciti separatamente sotto etichette gemelle l’integrale delle Sinfonie, dei brani sinfonico-corali (eccettuato il Requiem tedesco, di prossima registrazione) e dei Concerti per pianoforte e orchestra diretti da Claudio Abbado con i Berliner Philharmoniker e con la partecipazione di Alfred Brendel. Il risultato è apprezzabilissimo, ancor più del ricordo che avevamo del Secondo Concerto e della Quarta Sinfonia nelle esecuzioni dello scorso agosto a Salisburgo. Soprattutto nel Concerto sono spariti certi abbassamenti di tensione riscontrabili nello sviluppo del primo movimento e nell’Andante (la stessa uscita del violoncello solista, Georg Faust, e il suo dialogo col pianoforte sono più coesi); mentre sono rimaste intatte la scattante incisività dello Scherzo e la mirabile progressione dell’ultimo tempo, vero punto nodale di questa interpretazione. Che tende ad essere in equilibrio tra un’accentuazione del dramma risolutamente imposta da Abbado e una predilezione per il racconto suggerita invece da Brendel con indugi espressivi, a volte insistiti e un tantino esibiti.
Chiaramente termini come dramma e racconto vanno intesi in senso puramente musicale e non hanno nulla a che fare con intenti programmatici: significano che Abbado stringe le fila del discorso mettendone in rilievo le relazioni e le trasformazioni, laddove Brendel, quasi improvvisando, dà spessore a immagini che si stagliano come valori autonomi, momenti culminanti in cui viene per così dire riassunto tutto il percorso del Concerto; ed è un percorso meno lineare e teso di quello di Abbado. C’è però anche l’altra faccia della medaglia: le due visioni, a questo livello di maturazione e approfondimento, si completano a vicenda aderendo alla perfezione l’una all’altra. S’intuisce che questo equilibrio è stato raggiunto non per via teorica, ma attraverso assestamenti impercettibili e graduali nel corso delle numerose esecuzioni dal vivo dell’anno scorso. Alla fine abbiamo una realizzazione discografica compiuta del Brahms che guarda al futuro e di quello che assomma la tradizione del genere (più Schubert e Schumann che Beethoven) ripensandone individualmente, per astrazione classica di contenuti romanticamente accesi, le forme e i rapporti. Per gusto personale ritengo ancora preferibile la vecchia incisione di Abbado con Pollini, che nasceva già da un’idea comune proiettata in avanti; ma questa è in parte più ricca di prospettive e di suggerimenti, oltre che più scavata nei particolari da parte di Abbado.
Il quale offre nella Quarta la più esauriente dimostrazione della sua idea di Brahms. Ma più che di una dimostrazione si tratta di una realizzazione che passo dopo passo unisce lo slancio di una passione vibrante al controllo lucidissimo delle ragioni formali. Vertice in questo senso è la passacaglia dell’ultimo movimento, dove Abbado riesce a far sentire la presenza dello schema ostinato abolendo ogni rigore nella ripartizione delle variazioni, come se quella presenza si sciogliesse nella logica estrosa delle fantastiche elaborazioni. Ed è questo il tratto complessivamente nuovo della sua interpretazione: una maggiore flessibilità poetica, una ricerca più centrata dello stile peculiare di Brahms. Da questo punto di vista Abbado ha frenato un po’ sul versante della “”modernità”” di Brahms, come se l’iniziale interesse per le novità, vere o presunte, del linguaggio (per intenderci proseguendo la linea progressista rilevata da Schönberg) si fosse decantato in un respiro estesamente lirico, tendenzialmente più tragico che epico. Basta ascoltare l’inizio per capire che gli elementi strutturali da cui si origina trasversalmente il tema principale sono l’estrema propaggine di un qualcosa che precede e vive da lungo tempo, quasi un’eco di risonanze anche interiori, più che i materiali di costruzione di un nuovo ordine razionale. E che l’ordine razionale sia dunque il risultato di una riflessione spirituale, con molte sospensioni non eccentriche, è una conquista che Abbado sembra aver fatto sull’onda dell’esperienza. Siamo in una posizione intermedia tra le intepretazioni crepuscolari di severa scuola tedesca e quelle aurorali, espressivamente limpide, brulicanti di canto e di energia ritmica delle più giovani generazioni di interpreti, di cui per esempio Muti ha dato recentemente saggi tanto originali quanto avvincenti. E se la virtù non sta sempre nel mezzo, con Abbado ci attestiamo su una idea molto vicina alla verità.
Un gioiello a sé sono le Variazioni su un tema di Haydn, che Abbado recupera a una dimensione di robusta tessitura contrappuntistica, facendone un pezzo assai più importante e denso di quanto non si creda solitamente. Assorta in una contemplazione di virile eloquenza, la Nenia non sembra molto lontana dalle atmosfere del Requiem tedesco, anche se le parole di Schiller rimandano a un ideale classico di arcana ineluttabilità. Abbado la rende tutt’altro che sommessamente malinconica, sottolineandone il disegno con fraseggio nitido, senza impastare i colori in brumose lontananze.
I Berliner suonano non solo in modo magnifico ma anche con prodigioso trasformismo: in Brahms l’era Karajan è lontana, quella di Abbado già pienamente sbocciata e affermata.
Musica Viva, n.6 – anno XVI