Dvorak
Sinfonie n. 7, n. 8 Philadelphia Orchestra, direttore Wolfgang Sawallisch
Emi EDC 7 49948 2
Brahms
Sinfonia n. 4; Ouverture Tragica London Philharmonic Orchestra, direttore Wolfgang Sawallisch
Emi CDC 7 54060 2
Dvorak e Brahms, un accostamento che ritorna spesso nelle storie della musica, e che le due più recenti produzioni discografiche di Wolfgang Sawallisch per la Emi ci aiutano a intendere tramite l’atto interpretativo. Proviamo anzitutto a disegnarne lo sfondo. Sei mesi separano la prima esecuzione della Settima Sinfonia di Dvorak (22 aprile 1885) da quella della Quarta di Brahms (25 ottobre dello stesso anno); per Brahms si tratterà dell’ultima Sinfonia, per Dvorak di un nuovo impulso verso la creazione sinfonica che culminerà quattro anni e mezzo più tardi nell’Ottava (prima esecuzione il 2 febbraio 1890) e da ultimo nel grande successo del “”Nuovo Mondo”” (1893). Per entrambi la via verso la Sinfonia fu il risultato di una conquista lenta e progressiva: più controllata e autocritica nel caso di Brahms, che si sentiva l’erede di una tradizione insieme ricca di stimoli e di condizionamenti non solo psicologici, più istintiva e procedente per successivi tentativi in quello di Dvorak, che tuttavia non se l’era sentito di dare alle stampe ben quattro lavori composti in quel genere e che in seguito provocò non poca confusione nell’ordine di pubblicazione delle sue Sinfonie (Settima e Ottava sono in realtà la Seconda e la Quarta nel catalogo delle sue opere, rispettivamente contrassegnate dai numeri 70 e 88).
A quel tempo, la notorietà di Dvorak era già internazionalmente consolidata, ma ancora legata al colore nazionale delle Danze slave. Non solo per il fatto di essere state originariamente composte per pianoforte a 4 mani e poi trascritte per orchestra, esse si ispiravano dichiaratamente al modello delle Danze ungheresi di Brahms: alcune delle quali, e precisamente la serie che va dal n. 11 al 16, Dvorak stesso avrebbe strumentato e Brahms fatto pubblicare dopo il 1881. Ecco il primo aggancio: Dvorak e Brahms sul versante comune dell’assimilazione romantica, di natura affatto ideale, della musica e dello stile popolare, compositivamente reinventato e proiettato nella sfera dell’arte colta.
In questo versante, Dvorak aveva innalzato Brahms a suo modello; e questi, da parte sua, aveva anche concretamente aiutato il collega di appena otto anni più giovane, ma infinitamente distante dalla sua posizione di autorevole conservatore della tradizione, a trovare se stesso. La scoperta e la rielaborazione della musica popolare erano stati il primo passo verso più impegnativi traguardi, al cui apice stava la conquista dei dominii della Sinfonia. Ma l’influenza di Brahms non si limitò a fornire la traccia per muoversi disinvoltamente, senza però mai superarne i confini, all’interno di quei territori: fu per Dvorak la presa di coscienza di ciò che doveva essere la Sinfonia, ossai trasfusione nelle dimensioni della grande forma di una vena inventiva che in lui sgorgava fresca e naturale, con immediatezza di carattere e pronunciata tendenza al lirismo, ma che non aveva ancora conquistato la solidità della struttura formale organicamente concepita. A differenza di Brahms, il cui rapporto con i grandi del passato era determinato dalla coscienza storica del compositore (sicché, per esempio, la venerazione per Schumann non portò a una identificazione con le sue scelte compositive), Dvorak aveva bisogno di un riferimento preciso, concreto, a cui ispirarsi senza esserne negativamente condizionato. In Brahms trovò il sostegno che cercava, la via che conduceva verso la compattezza e la compiutezza della forma sinfonica non programmaticamente (ossia extra-musicalmente) sostenuta.
Come vede allora un direttore profondamente radicato nella tradizione della musica tedesca, e segnatamente in quella teatrale, come Sawallisch, questi autori della fase tarda della storia della Sinfonia? In senso non storico, ma per così dire assoluto: come prodotti di una età in cui la Sinfonia ripensa se stessa alla luce di una nuova consapevolezza delle qualità e dei valori eminentemente espressivi e costruttivi della propria architettura formale. Non c’è niente di crepuscolare, di autunnale, di brumoso nel suo Brahms; niente di folcloristico o di ingenuamente popolaresco nel diffuso sentimento lirico e nel naturale fluire del discorso musicale, ora vigorosamente teso ora serenamente disteso, dei quattro tempi solidamente strutturati delle Sinfonie di Dvorak. Qui la musica celebra un ultimo trionfo, nel segno del positivo liberarsi di forze mature per coordinarsi nell’equilibrio della forma compiuta, sia pure in una sorta di “”seconda natura””. E se Dvorak sembra accerchiare Brahms per ricavarne nei passi più perigliosi degli sviluppi (nei tempi estremi, soprattutto) un ordine compatto, Brahms si erge sulle vette più alte dell’estremo promontorio sinfonico per benedire in un rito sacrale il ritrovato, pieno splendore della forma pregna di sostanza. Luminosa come poche altre volte, la Passacaglia tesse le sue trame quasi provenendo da un lontano passato, ma attestandosi sul limite estremo che alla musica, come pensiero e come gioia, forse non è consentito oltrepassare. E di questo splendido rito Sawallisch, con una orchestra di formidabile presenza e risposta, sembra quasi stupirsi, nel momento stesso in cui lo officia con mano sicura e sapiente.
Inarrivabile la sua capacità di spiegare e di esaltare la forza della musica, nei momenti decisivi in cui è necessario farlo, prima di tutto per se stessi. Questo è uno di quei momenti che il disco ci comunica, accostando Dvorak a Brahms, e noi a loro.
Musica Viva, n.5 – anno XV