Eclettica, ma insabbiata nei luoghi comuni
La regina di Saba di Karl Goldmark, compositore di origine ungherese ma austriaco di adozione (morì a Vienna nel 1915, carico di fama e di onori), mancava in Italia da moltissimi anni, novanta per l’esattezza. Fu tra il 1875, che è la data della sua prima apparizione, e la fine del secolo scorso una delle opere più rappresentate non solo del suo autore (che benché componesse ancora cinque opere teatrali mai più raggiunse il successo di quella prima) ma anche della sua epoca, che come è noto non difettava certo di autori e di opere significative. La curiosità di capire perché un’opera d’improvviso si eclissi dopo essere stata per un certo tempo ammirata ed eseguita si mescola in questi casi a quella di confrontarsi dal vivo, nel suo proprio ambito, con un lavoro sconosciuto: e ciò rendeva sulla carta molto interessante la proposta del Teatro Regio di Torino, tanto che vi accorsero un po’ da ogni parte molti curiosi, e appassionati, immediatamente riconoscibili in mezzo a quella specie di gelido sfondo che è il pubblico elegante e antipatico di Torino.
Ciò che faticosamente riuscimmo a capire delle due questioni fu faticosamente ostacolato da una proposta esecutiva non all’altezza dell’occasione, se non nel direttore, che era il bravo ed entusiasta Yuri Ahronovitch: il quale pare che da anni covasse il sogno di dare finalmente in teatro quest’opera del suo beniamino. Il resto, dalla compagnia di canto formata da Licinio Montefusco (il re Salomone), Nicola Martinucci (Assad), Bonaldo Giaiotti (Il Gran Sacerdote), Elena Mauti Nunziata (Sulamid) e Jeannine Altmeyer (la regina di Saba), più i comprimari Alfonso Antoniozzi, Silvana Mazzieri ed Enrico Turco, fino ai responsabili dell’allestimento (il regista Peter Busse, lo scenografo e costumista Paolo Bernardi, e il coreografo Jacques Fabre, importante perché deve cimentarsi con due grandi balletti), avevano di per sé troppi problemi da risolvere per fornircene una risposta esauriente. Così che soprattutto seguimmo loro, incitandoli, rallegrandoci o viceversa dispiacendoci per le alterne vicende degli acuti e degli stili ora mancati ora tolti, e finimmo per perdere un po’ di vista Goldmark e la sua opera.
Segno, però, ch’essa non ci aveva afferrato e conquistato al punto da farci dimenticare le pur superabili contingenze. E, con malcelato disappunto, via via che la piena della musica scorreva lungo i quattro interminabili atti, ci si interrogava sul perché l’interesse teoricamente bendisposto non sortisse l’effetto di radicarsi finalmente in una qualche concreta ragione del teatro o della musica. Qualche ipotesi, da ultimo, si affacciò, anche in termini più generali rispetto all’oggetto in questione.
La regina di Saba è un’opera tutt’altro che priva di individualità o di caratterizzazione. La sua forza sta nell’eclettismo che, come giustamente nota Quirino Principe nel suo prezioso saggio sul programma di sala, non è affatto un principio negativo. Ma l’eclettismo di Goldmark non è per così dire un principio assoluto di composizione, bensì un mezzo di comunicazione e di espressione legato al linguaggio e alle forme della sua epoca: insomma, allo spirito del tempo. Ciò spiega che ai suoi tempi potesse avere grande successo: perché realizzava, in modo non problematico e mediamente onnicomprensivo, le attese tanto del pubblico quanto degli artisti. Di tutto un po’, di tutto di più: la vocalità robusta e svettante di scuola italiana, il declamato wagneriano ostile alle forme chiuse e tendente alla continuità della linea melodica non però programmaticamente funzionale al dramma, il grand-opéra con i balletti e i cori che fanno da cornice a un’azione bloccata nei punti culminanti e dilatata fino alla staticità dei grandi quadri d’insieme. E poi l’ambientazione esotica, l’intreccio di una trama romanzesca a forti tinte con una tematica che si richiama solennemente ai motivi politici, morali e religiosi della tradizione ebraica e biblica, il realismo descrittivo contrapposto alla sensualità e all’ebbrezza dell’immaginario mitologico e insieme operistico, in un clima di edonismo tutto ricostruito e fittizio. Tutti questi ingredienti mescolati insieme poterono fare la fortuna di un’opera che riassumeva le tendenze dominanti ed ecumenicamente le accostava senza sceglierne o privilegiarne alcuna. E’ chiaro che nel momento in cui il teatro musicale contemporaneo cominciò a fare delle scelte, anche drastiche, la silloge della Regina di Saba si frantumò e venne spazzata via da nuovi, più limpidi ideali e criteri. Con un paragone riferito ai nostri tempi, si potrebbe accostare quest’opera a un film americano di successo, realizzato con grandi mezzi e sensibile alle strategie di consumo, e perciò gradito tanto ai patiti di Bergman che a quelli di Totò, disposti che siano ad evadere dall’ambito di uno stile e di una tematica ben precisati per aprirsi al piacere di una sontuosa rappresentazione degli aspetti fondamentali della vita nel linguaggio comune della reinvenzione artistica contemporanea. Prodotti d’attualità e d’epoca, ad esse legati e svuotati di contenuti e di forme se astratti dal contesto in cui sono nati, al di là della brillante superficie. Eppure, La regina di Saba non è un documento che ci aiuti a ricostruire un’epoca della storia del teatro del secondo Ottocento, e che ci istruisca sulle sue convenzioni o ragioni di essere. L’ambizione di Goldmark è infatti rivolta a personalizzare l’eclettismo, a dare una visione propria dei suoi elementi, che da ultimo risulta un po’ sghemba. Le intenzioni si scontrano non tanto con la capacità di dare una nota, un tocco, un tratto personale a quelle tradizioni e tendenze, ma con la qualità della realizzazione. Impresso lo slancio, il volo non riesce; fissato un tragitto, la strada si interrompe osi perde in sentieri secondari. E noi rimaniamo disorientati, privi di agganci. La natura del sinfonista sembra rivelare nei momenti decisivi la sua superiorità su quella del compositore di teatro. Ma si smorza, perdendo quota, ben prima degli attesi sviluppi. E sulla scena torna a lottare con le sabbie mobili dei luoghi comuni, troppo necessari per andare avanti, troppo poco gratificanti per essere accettati in toto. E privi anche della coscienza degli squilibri da parte dell’autore.
La sopravvivenza in questi casi è più che mai determinata dall’originalità dell’esecuzione e delle proposte interpretative. A Torino siamo rimasti a metà strada, ma era difficile fare di più. Eccettuato forse che per la regia, la cui idea di spostare la vicenda alla Vienna fine Ottocento di Goldmark, con relativa opzione per l’ambientazione liberty, era la ciliegina sulla torta dei facili luoghi comuni. Mai come questa volta si è avuta l’impressione che anche i miracoli delle riesumazioni si scontrano oggi con le barriere, culturali ed estetiche, che ci separano da un mondo, quello del melodramma, sempre più lontano e indifferenziato. Il paesaggio va scomparendo, e restano solo le cime a testimoniarne l’esistenza.
Musica Viva, n.3 – anno XV