Compositore appartato, con un acuto e dolente senso religioso e spirituale, rifiuta lo sperimentalismo e traduce in suoni le risonanze interiori
Arvo Pärt.Compositore. Nato cinquantacinque anni fa in Estonia, ma residente da dieci a Berlino. A lui, autore se non prolifico già ben rappresentato da numerosi e importanti lavori di tendenze e organici diversi,caratterizzati da uno stile e da una concezione della musica assolutamente personali, Aterforum Festival ha dedicato a Ferrara l’estate scorsa la consueta sezione riservata alla musica contemporanea. Ed è stata una scoperta che ha lasciato tracce in tutti coloro che hanno avuto la ventura di viverla.
Pärt è un personaggio che ci riguarda: così originale e amabile da averci fatto sentire come una necessità l’impegno di descriverlo. Ascoltare la sua musica non sarà forse, ora, agevole. Dal vivo, s’intende, ma anche se alcuni suoi dischi, prodotti dalla Ecm Records di Monaco, possono rendere un’idea di ciò che Part persegue con la sua musica, è solo dal vivo, come sempre, che si possono capire veramente certe cose. Soprattutto quelle essenziali.
Essenziale. Ecco il termine decisivo per un ipotetico ritratto di Pärt. La sua è una musica ritornata a misura d’uomo: i cui valori si esprimono nella ricerca, ma soprattutto, goethianamente, nel raggiungimento della sensibilità, della chiarezza, della semplicità e dell’immediatezza. Pärt compone la sua musica per pochi esecutori (sempre gli stessi, i suoi collaboratori più fedeli), con una tecnica apparentemente elementare, che è il risultato di una riduzione all’essenza dell’idea stessa di creazione. Una definizione data da lui stesso può essere indicativa: “”Potrei paragonare la mia musica alla luce bianca: essa contiene tutti i colori, solo il prisma può dividerli e farli apparire. Questo prisma potrebbe essere l’anima di chi ascolta.
Amo molto gli zingari, i girovaghi, i viandanti, perché non sono soddisfatti di quello che hanno e cercano. Amo anche gli alcoolizzati e i malati nell’anima, perché soffrono e si pongono domande. Sono loro idealmente i miei compagni di strada. Anche se io mi esprimo con la musica, soffriamo e cerchiamo le stesse cose””.
La mancanza di una cultura radicata nella tradizione occidentale (benché sia da tempo emigrato con orrore dal suo Paese e viva a Berlino, Pla tradizione occidentale (benché sia da tempo emigrato con orrore dal suo Paese e viva a Berlino, Pärt è un figlio solitario e triste della sua terra, un puro e uno sradicato), il rifiuto dello sperimentalismo e delle tecniche (ma si potrebbe dire meglio dello stato d’animo) delle avanguardie (“”i compositori di oggi non respirano più, scrivono una musica di plastica, artificiale, di cui hanno perduto completamente il senso””, e queste parole le dice quasi con dolore); e poi un acuto e dolente senso religioso e spirituale, unito a una delicatezza di sentimenti che quasi naturalmente si esprime attraverso i suoni: tutto ciò fa di Pärt un caso raro nella musica del nostro tempo, quello di un compositore appartato e ispirato da una musa umile, che ascolta le risonanze interiori e pudicamente le traduce in suoni.
Qual è il suo rapporto con la musica, e con le epoche della storia della musica? Lunghi silenzi. Risposte elusive. “”Esiste una musica che costruisce ed esiste una musica che distrugge. La musica del passato, per esempio, quella antica del Medioevo e del Rinascimento, era una musica costruttiva. Lo scopo della musica, non solo di allora, ma anche di tutta la musica, è quello di costruire in un senso positivo. Il mio scopo come musicista è quello di scegliere fra i suoni secondo la mia natura, secondo le mie inclinazioni e il mio stato d’animo. Con la stessa naturalezza con la quale, quando vado al mercato, scelgo tra la frutta e la verdura quello che più mi piace e di cui ho bisogno. Così, con lo stesso spirito, scelgo anche le altezze e i rapporti fra i suoni.
L’ossessione del carcere, materiale e spiritale, e la riconquista della vita.
Per quanto mi sia nutrito per molto tempo soltanto di inferriate, oggi posso guardare il mondo a occhi aperti. O invece chiudere gli occhi, e sentire la libertà vivere in me. Oggi posso riconsiderare con occhi più sereni anche la ‘nuova musica’, l’avanguardia. Non sono contro la musica seriale per principio, sono contro il modo oppressivo in cui essa è stata usata finora. Si sono usati i suoi elementi al fine di costruire anche in musica una specie di bomba atomica. Costruire la distruzione, si può dire così?””
Sì, si può dire.
“”Forse questo tipo di scoperte scientifiche sono avvenute troppo in fretta, e noi non siamo ancora in grado di dominarle. Non era così in passato, in musica. Allora veniva definito uno spazio e un tempo, un luogo. Il luogo della musica. Io cerco di ricreare queste condizioni. Ciò non significa che mi senta un uomo del Medioevo reincarnato, e sorrido quando scrivono che la mia è musica di un compositore medievale moderno. Mi rifaccio a principi di costruzione della musica, con qualità e sensibilità diverse””.
Esiste un sistema linguistico o la musica è solo il risultato di queste esperienze? “”Tutto nel mondo è sistema. Anche l’ordine divino è un sistema, un sistema molto complesso, e nello stesso tempo semplice e trasparente. Meraviglioso e misterioso, ma reale. Io vado alla ricerca di questi grandi misteri, che sono anche nella musica””.
Leggiamo dalla biografia di Pärt: “”Due differenti fasi contraddistinguono il lavoro di Pärt. Fino al 1968 egli compone utilizzando il linguaggio seriale, e la composizione Credo (per pianoforte, coro e orchestra), basata sul Preludio in do maggiore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach, segna nello stesso anno il termine di quel particolare percorso, costituendo, nello stesso tempo, una sorta di personale ‘manifesto’ di poetica musicale (tra l’altro, a causa del suo testo – ‘Io credo in Gesù Cristo’ – Credo fu sottoposto a censura). Seguì, nel periodo che va dal 1968 al ’76, una fase di riflessione artistica (durante la quale Pärt studiò il cantus planus, la polifonia francese e fiamminga medievale e rinascimentale, l’opera di Machault, Ockeghem, Obrecht e Josquin, nonché qualsiasi tipo di musica liturgica). In questi anni Pärt compone alcuni lavori nello spirito della antica polifonia europea, di cui la Terza Sinfonia (1971) costituisce un esempio estremamente significativo. Dopo questa composizione Arvo Pärt rimane nuovamente in silenzio fino al 1976, quando pubblica una breve composizione pianistica, Per Alina, la prima di una serie di composizioni composte in quello che Pärt ha definito come ‘Stile Tintinnabulum’(tintinnabulum in latino significa campana). Seguono a breve distanza: Pari Intervallo, Cantus in Memory of Benjamin Britten, Tabula Rasa (commissionatagli dal violinista Gidon Kremer), Fratres, Arbos“”.
A proposito dello “”Stile Tintinnabulum””.
“”Non è facile definirlo. Il mio materiale costruttivo si compone di due elementi. Il primo è una libera melodia intesa come linea di successione di suoni per gradi. Questa libera melodia è basata essenzialmente su un centro. (Chiare reminescenze del gregoriano). Il secondo è invece basato sulla triade. Tra i due elementi c’è attrazione e completamento, integrazione ed equilibrio. Intercorrono regole severe tra melodia orizzontale e accordo nello spazio. La triade spezzata determina anch ‘essa una sorta di controcanto mentre completa la linea melodica. Insomma, una specie di Hokuspokus””. (Hokuspokus significa magia, ma anche gioco di mano, gherminella).
Dalla biografia di Pärt, parte seconda: “”Da quando Pärt è emigrato in Occidente, la sua musica viene, nel giro di pochi anni, eseguita più volte in Europa prima, e successivamente in tutto il mondo. A questo contribuiscono anche l’entusiasmo e la dedizione che per la musica di Pärt dimostrano musicisti come Gidon Kremer e l’Hilliard Ensemble, a cui molte delle composizioni di Pärt sono destinate. Tra i suoi lavori più recenti citiamo Passio (1982), Stabat Mater (1985), il Miserere (1989), la Berliner Messe e The Beatitudines (1990)””.
I rapporti con gli esecutori
“”La musica è qualcosa di mutabile. E anche provare significa cambiare. I complessi che suonano solo musica contemporanea, gli specialisti, non hanno alcun rapporto con la musica: sono morti, e non c’è Stradivari che possa aiutarli. E come un bosco morto, nel quale siano cadute le foglie. Questa è anche la situazione penosa della musica contemporanea, nella quale contano solo i parametri (altezze, intensità, ritmi), e tutto è in bianco e nero, senza sfumature di colori. Non bisogna accettarlo a occhi chiusi, come fanno i bambini; occorre chiedersi e sapere che cosa è questo e quest’altro””.
I colori, il timbro
“”I colori vengono semplicemente dalla lingua. Sono le parole che fanno i colori””.
Il rapporto col testo
“”Io uso soprattutto salmi, testi sacri. Il testo è in primo piano. La musica sullo sfondo. Il testo determina già la musica con le sue interpunzioni, la punteggiatura, il numero delle sillabe, la lunghezza di una parola. Tutto ciò è basato sul testo. In un’opera come Passio, per esempio, il testo è tutto: il modo in cui la musica si dispone nel tempo e nello spazio è determinato dal testo. Un punto è un punto, cioè richiede una pausa. Una parola lunga come “”misericordia”” deve avere tutto il tempo per risuonare: bisogna aspettare, anche nella musica””.
Perché nelle sue opere ritorna continuamente il tema della morte?
“”La morte è il punto centrale della vita. Sia che viviamo sia che moriamo, noi apparteniamo al Signore””.
Come giudica oggi i suoi primi lavori, solo come ricerca di un linguaggio?
“”E come se fossero stati amputati dal mio corpo. Riconosco che questa è la mia mano. O forse è la mia mano. Ricordo a stento. Ma quel che è certo, è che non posso più usarla. Non posso suonarci il pianoforte, per esempio””.
Nelle sue opere sono ricorrenti le dediche. Perché?
“”Non sono dediche aggiunte dopo, alla fine. Colui che le porta esiste dal principio, è come un secondo autore””.
La sua musica è fatta di poche note, di poco materiale. Potrebbe definirla con una sola immagine?
“”La musica è fatta ogni volta di una nota, a cui si aggiunge un ‘altra nota, e così via. Così anch ‘io faccio solo un passo dopo l’altro, e non oso di più. Qualunque immagine usassi per definirla, sarebbe valida solo per quella volta, la seconda volta significherebbe un’altra cosa. O forse non ci sarebbe una seconda volta. Anch’io sono alla ricerca di questa immagine. Questa ricerca si esprime nella musica. E’ una domanda anche per me”” .
La musica delle sfere, oggi
“”Esiste una musica che risuona nel mondo, dovunque. Una musica che vaga nell’aria, e che noi non udiamo. Oppure ognuno la sente, ma a suo modo. Questa musica è molto difficile da udire: essa è destinata ai grandi artisti, e io non so che cosa sia. Per questo non ci rivolgiamo alle grandi figure della storia della musica. Le leggi della natura esistono da sempre, anche prima che gli scienziati le scoprissero. La musica che si vede con gli occhi o che si ascolta con le orecchie risuona da sempre, dunque anche oggi; anche se noi forse non ne sappiamo ancora il significato. Noi dobbiamo accordarci con questa musica perché risuoni, per captare e ricevere ciò che ci viene trasmesso. Non si tratta semplicemente di accordare degli strumenti, le cui possibilità di ricezione sono limitate. E piuttosto un fatto di risonanza interiore e di travaglio””.
Le diverse versioni di un’opera
“”Questo è un desiderio degli interpreti. La mia musica è abbastanza libera, ma non assolutamente libera. Vi è in essa un ricordo della musica antica, rinascimentale e barocca, dove esistevano molte possibilità per organici strumentali diversi, e non un’unica versione. Questa era la regola; l’eccezione è data dalla musica classica e romantica. Io traccio un segno, e l’esecutore dà il colore””.
L’obbligo della riduzione
“”Noi dovremmo ridurre tutto, o molto, in noi e nella musica. La musica capitola quando pretende di usare ampiezze smisurate, di forzare i propri limiti. Il canto gregoriano, nella sua apparente semplicità, è molto più potente e ricco della musica fiorita, contiene molte più possibilità e varietà della musica che si dispiega con mezzi ipertrofici. Limitandosi, conoscendo i propri limiti, si ottiene una capacità assai maggiore di espressione interiore. Occorre ridurre, amputare. La riduzione è un esperimento, e una scuola. Nella musica, non si può, non si deve ascoltare tutto. Ci sono limiti che non vanno superati: anche perché non ce n’è bisogno””.
La metafora dell’albero. Qualcosa di profondamente simile al bellissimo, ultimo film di Andreij Tarkovskij Il Sacrificio, dove un bambino innaffia un albero sradicato, ed esso riprende a fiorire. La musica di Pärt ricorda molto le visioni, i sogni di Tarkovskij.
“”Quando noi vogliamo rendere più forte un albero, un arbusto, lo potiamo a primavera, ed esso riprende a crescere con nuova linfa. E’ doloroso amputarlo di alcune sue parti; ma solo così crescerà sano e rigoglioso””.
La varietà
“”Che cos’è la varietà? Quando una mongolfiera sta precipitando, per salvarla dobbiamo buttare la zavorra. Io non sono contro la varietà. Anche la malattia è una varietà di infezioni e di bacilli. Per salvare il malato, occorre eliminare l’infezione, rinunciare alla varietà distruttiva. Agli estremi confini della vita, quando tutte le forze sono scomparse e noi ci troviamo alle soglie della sopravvivenza, in quel punto tutte le singole malattie scompaiono, l’uomo diventa più forte e nella purezza comincia una nuova vita. Ritorna la salute. Così è anche per la musica. Spiritualmente, ridurre significa andare nel deserto, sviluppare le nostre possibilità creative e interiori perché intorno a noi non c’è nulla. In quel momento vedremo una ricchezza e una varietà che prima non ci immaginavamo neppure. Cioè esiste una varietà divina e una diabolica. Tutto questo bisogna viverlo, non dirlo.
Parlare non serve a nulla””.
Dice Hermann Hesse nel suo libro Il mio credo (1917): “”Vada il mondo come vuole, tu troverai sempre soltanto in te stesso un medico e un soccorritore, un futuro e un nuovo impulso nella tua povera, maltrattata, duttile, indistruttibile anima. In essa non v’è alcun sapere, alcun giudizio, alcun programma: solo tensione, solo futuro, solo sentimento. E’ lei che seguono i grandi santi e i predicatori, gli eroi e i martiri, i grandi cavalieri e i conquistatori, i maghi e gli artisti, tutti coloro il cui cammino è cominciato nella quotidianità per finire nell’alta beatitudine””.
Musica Viva, n. 1 – anno XV