Il sublime rigore dell’ascesi
Dirigendo a memoria appollaiato sullo scranno ortopedico che i malanni alle gambe gli impongono per evitare che stia troppo in piedi, con l’aria sacerdotale che lo contraddistingue, Sergiu Celibidache ha officiato la Messa in si minore di Bach alla Philharmonie di Monaco a conclusione del sessantacinquesimo “”Bach Fest””, il primo festival Bach dopo la riunificazione della Germania. E si è trattato di un’esecuzione per molte ragioni stupefacente, di quelle destinate a rimanere un punto fermo ancor più che nella storia dell’interpretazione (ché troppo personale e legata all’individualità dell’esecutore essa è parsa per restare storica), nel pensiero delle più profonde emozioni artistiche che la musica possa suscitare. Chi si aspettava un Bach con grande orchestra e grande coro è rimasto deluso. Celibidache ha optato per un organico fortemente ridotto dei suoi Münchner Philharmoniker (5 primi e 5 secondi violini, 4 viole, 2 violoncelli e 1 contrabbasso, più clavicembalo e organo per la realizzazione del basso continuo) e su un coro di specialisti, lo stupendo Bach-Chor dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, formato da appena 54 elementi (30 donne e 24 uomini). Non è invece rimasto deluso chi si aspettava un Bach attendibile stilisticamente (anche se noi sappiamo che l’estensione delle possibilità di ricostruzione di questo stile sono molto ampie, strumenti originali a parte); né tanto meno chi si attendeva grandi aperture musicali da questo raro incontro di Celibidache con il monumento bachiano, uno dei vertici assoluti della musica di tutti i tempi.
Il quale per il direttore rumeno non sembra appartenere alla liturgia sacra, ma anticipare già la Messa da concerto moderna, permeata di valori puramente musicali: come se a contare fosse il rito, profondamente intriso di spiritualità, della musica in quanto tale, fuori di ogni altro riferimento se non alla religione della musica stessa. La visione di Celibidache è maestosa come un grandioso edificio architettonico e solenne come una preghiera; ma nello stesso tempo intende e traduce questi termini in valori costruttivi ed espressivi di natura prettamente musicale. Essenziale al riguardo è la scelta dei tempi: insolitamente larghi più che lenti, scanditi con forza implacabile, eppure internamente mossi e flessibili per non tralasciare di mettere in rilievo ogni particolare. Anche nelle sonorità, Celibidache opponeva al clima vellutato e ovattato delle arie e delle introduzioni orchestrali, tenute tutte in un piano corposo, lo scatenamento di energie nervose potentissime nei passi corali contrappuntistici e soprattutto nei fugati. E anche nel calcolo delle tensioni formali e dei culmini espressivi sembrava seguire un filo tutto interno alla trama compositiva più che i suggerimenti e le figure del testo. Ciò si rispecchiava anche nel modo in cui Celibidache accompagnava i cantanti: inglobando la voce nel discorso strumentale, comunque facendo attenzione allo sviluppo in termini orchestrali. Sicché a risultarne esaltati furono soprattutto i passi solistici degli ottimi strumentisti monacensi, celebrati da Celibidache con sublime rigore, e compostamente offerti agli ascoltatori perché si spingessero con lui verso le vette più alte dello spirito. Un fatto della musica veramente da segnalare.
Musica Viva, n. 1 – anno XV