Il pensiero sinfonico puro dei classici
Che il lungo giro europeo di Riccardo Muti con i Wiener Philharmoniker avesse un significato speciale, lo si poteva dedurre da molti indizi. Anzitutto dall’importanza delle piazze toccate: Vienna, Monaco, Berlino, Londra, Parigi, ossia le principali capitali europee della musica. In secondo luogo dalla composizione del programma, anzi dei due programmi che si alternavano nei diversi concerti: Mozart (Sinfonia in do maggiore K. 425, detta “”Linz””) e Schubert (Sinfonia in do maggiore opera postuma detta “”La grande””) da un lato, Beethoven (Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore) e Brahms (Sinfonia n. 2 in re maggiore) dall’altro. Con questi autori e queste opere, che formavano una specie di ideale sinfonia in quattro tempi attraverso alcune cime dello stile classico e romantico, era evidente l’ambizione di Muti di proporsi, lui che talora è considerato (a torto) soprattutto un direttore di teatro, come interprete sinfonico: alle prese con quattro dei massimi autori del repertorio sinfonico stesso e con un’orchestra famosissima, che è, sul piano esecutivo, l’espressione più completa della tradizione. A questi significati, la conclusione italiana ne aggiungeva un altro, di tipo se si vuole più personale. Giacché i tre concerti sembravano ripercorrere, quasi in un viaggio sentimentale a ritroso, le tappe della carriera di Muti, simbolicamente: da Milano, dove opera oggi, a Firenze, dove si affermò internazionalmente, a Napoli, dove si formò come musicista e debuttò come direttore.
La possibilità di ascoltare a tempi ravvicinati i due programmi (Mozart e Schubert alla Scala, Beethoven e Brahms a Firenze e a Napoli) ha offerto un’occasione unica di confronti musicalmente istruttivi, oltre che emozionanti; da cui si è potuto prendere atto della felice maturazione di Muti nell’impegno affrontato con la massima serietà e naturalezza, e del valore di un’orchestra che, pur rimanendo unica per proprietà di suono e morbidezza di impasti, sa adeguarsi con prodigiosa duttilità ai più diversi disegni interpretativi: tanto che era difficile stabilire fino a che punto fosse Muti a giovarsi dell’esperienza e della bellezza di suono dei viennesi o non invece l’orchestra a esprimersi al massimo delle sue qualità grazie alla direzione di Muti.
Non solo per l’autorevolezza e la sicurezza dimostrate, il nostro direttore ha pienamente convinto, ottenendo dall’orchestra tutto ciò che voleva e proponendosi – dal vivo, quasi più di quanto non risulti dai dischi – come un interprete molto sensibile e personale dello stile sinfonico. Muti sembra avere – o aver acquisito col tempo – una affinità elettiva, professionale e spirituale insieme, con il mondo classico. La sua visione di questo mondo si muove nella direzione di un recupero non tanto di forme astratte, quanto di un clima musicale e poetico organicamente equilibrato ed esattamente racchiuso in proporzioni classiche anche quando l’accumularsi delle tensioni, superando il livello di guardia, minaccia la linea di confini certi. Dopo un Mozart di straordinaria trasparenza e lindore, dove il suono dell’orchestra fondeva la brillantezza con la vivacità ritmica, il ripiegamento interiore con l’austerità e il pudore dei sentimenti, mantenendosi nella misura di un nobile pathos, Muti e i Filarmonici hanno affrontato la “”Grande”” di Schubert con concentrazione estrema. Già l’attacco dell’andante, col tema dei due corni all’unisono, rivelava l’intenzione di adottare tempi spigliati, assai poco inclini alla pesantezza e alla celebrazione delle famigerate “”divine lunghezze””, e attenti invece a cogliere le necessità interne di un itinerario formale niente affatto incoerente. Muti ne saldava le sezioni con singolare chiarezza, tendendo semmai un poco, crediamo a questo fine, a serrare i tempi, per arrivare alla coda del primo movimento dove l’Allegro ma non troppo diviene con Più moto, a una scansione dinamica drammatica, ma forse un po’ troppo precipitata. Era però sempre evidente ciò che il direttore voleva ottenere: uno Schubert ricondotto nell’alveo dello stile classico, eppure intensamente espressivo, alla ricerca di una “”via nuova”” rispetto al titanismo beethoveniano che non contraddicesse le coordinate fondamentali del pensiero sinfonico puro. E da questo punto di vista l’idea unitaria che Muti mostrava di averne riusciva molto interessante, anche se non escludeva altre interpretazioni per così dire più spinte verso la modernità o linguisticamente più avanzate: per esempio sul versante del romanticismo nero (la danza macabra del Finale) e contemplativo (le digressioni dell’Andante con moto) o della programmatica extra-musicale; che del resto Muti stesso virtualmente coglieva negli episodi in maggiore del secondo movimento o nel clima di danza paesana del Trio. A tutto ciò va aggiunto che Muti, rispettando tutti i ritornelli e portando la durata complessiva della Sinfonia a cinquantotto minuti, ne dava una versione non solo integrale ma anche esattamente dettagliata e proporzionata che, come spesso accade in questi casi, finiva per renderla quasi più breve, e senz’altro più comprensibile.
Anche nelle Sinfonie di Beethoven e Brahms Muti vede affinità profonde, di programma compositivo e spirituale, nel segno della musica assoluta, ben oltre le ricorrenti assonanze tematiche: come se fra l’Adagio introduttivo di Beethoven e le sospensioni che frenano la corsa nel Finale della Sinfonia di Brahms corresse un tratto unitario, e vi fosse una fondamentale identità di linguaggio. E si riconfermava, a livelli di ancor maggior virtuosismo, che la libertà esibita da Muti nel dipanare la trama dei percorsi tematici, degli sviluppi e delle relazioni armoniche, nel differenziare i piani sonori e stabilire i culmini drammatici, riposa oggi sulla completa emancipazione della tecnica del gesto in funzione della comunicazione altamente espressiva. Certo, con i Wiener se lo può permettere; fatto sta che Muti non scandiva battute, ma abbracciava le grandi frasi e i periodi del di-scorso musicale, liberando in esso le forze latenti dei nessi componitivi: in Beethoven, erano esemplari al riguardo il passaggio dalla cupa introduzione in tempo lento allo scintillante Allegro vivace del primo movimento, e il tema dell’Adagio nel secondo movimento, dove l’arco della nobile, distesa melodia non era spezzato, come spesso accade, dalla figura ritmica di accompagnamento. E in Brahms, l’esatta definizione del tempo di base, un tempo animato come un respiro ampio, rendeva naturali e insieme efficaci anche i cambiamenti più impercettibili; senza che si indulgesse, per esempio nell’esposizione dei temi secondari o nei cantabili, a sentimentali slargando. Così facendo, Muti mostrava di avere idee chiare sull’ insieme e sulla parabola delle tensioni e delle distensioni formali; ribadite anche nel rigoroso rispetto di tutti i ritornelli, essenziali per la resa delle simmetrie e delle proporzioni non solo formali.
Se si voleva avere una conferma della crescita di Muti, una crescita di natura non solo musicale ma anche culturale e intellettuale, questi concerti ne hanno dato la prova più completa. Tanto da mettere nell’imbarazzo coloro che, pur riconoscendo l’enorme talento del direttore, non pensavano che, come interprete, egli potesse giungere così presto a questi vertici. Costoro sbagliavano. Da Muti è ora lecito attendersi grandi cose soprattutto nel repertorio sinfonico: quelle stesse salutate dall’applauso congiunto dei pubblici di Milano, Firenze e Napoli e della Filarmonica di Vienna, divenuta ormai il suo principale sponsor artistico in Europa.
Musica Viva, n. 1 – anno XV