Chi ha mandato Beethoven all’enoteca?

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I traduttori di libri sulla musica sanno spesso le lingue ma quasi mai la musica. E la loro è una vita difficile

Si calcola, approssimativamente, che due terzi dei libri di argomento musicale pubblicati in Italia siano traduzioni. Non vogliamo qui discutere se ciò sia o non sia un fatto positivo (positivo lo è di certo per la circolazione delle idee e il confronto delle metodologie; anche se troppo spesso si traducono libri inutili, togliendo così spazio ai nostri autori, che oggi non sono o non sarebbero affatto inferiori ai colleghi di altri paesi). Quel che qui vogliamo trattare è invece il problema delle traduzioni in quanto tale. Delle traduzioni, appunto, di libri di argomento musicale. Che del problema generale delle traduzioni in Italia costituiscono un caso particolare, con aspetti e risvolti specifici, ma non settorialmente esclusivi. Ma è davvero un problema, quello delle traduzioni? A prima vista, parrebbe proprio di sì. La qualità media delle nostre traduzioni, si dice, è insoddisfacente, sotto il profilo sia dello stile sia della affidabilità. Eppure sarebbe inesatto affermare che in Italia manchi una tradizione di alto livello in questo settore. A tacere delle traduzioni per così dire d’arte, o d’autore, dei nostri poeti, scrittori e letterati anche maggiori, che hanno fatto conoscere e amare molti testi fondamentali scritti in altre lingue, anche musicologi e critici del valore di un Mila, un D’Amico, un Bortolotto, un Bianconi e altri, si sono prodotti in veste di traduttori, con risultati apprezzabilissimi. Perfino musicisti come Luigi Dallapiccola e Giacomo Manzoni figurano in questa schiera. Ciò però avveniva in un’epoca in cui le traduzioni erano assai meno diffuse di oggi, e per autori o temi che in qualche misura rientravano direttamente negli interessi di questi studiosi (Busoni per Dallapiccola, Wagner per Mila, Adorno per Bortolotto, e più recentemente Dahlhaus per Bianconi).

Non sempre però è possibile attingere a queste personalità in altre occasioni; soprattutto quando i libri da tradurre sono diventati tanti, e del genere più diverso.

Che cosa occorre per essere un buon traduttore? Anzitutto, come è chiaro, una buona conoscenza della lingua; anzi, delle lingue. D’Amico, che è stato un traduttore fenomenale, era solito dire che il traduttore deve conoscere bene la lingua in cui traduce (ossia l’italiano), più ancora di quella da cui traduce; giacché qualcuno che ti aiuta a capire l’originale, se ci sono dei dubbi e il vocabolario non basta, lo trovi sempre. Ma se non sei padrone dell’italiano in tutte le sue sfumature, se non hai sensibilità per la costruzione della frase e l’armoniosità del periodo, sarà difficile che la traduzione riesca elegante e convincente. Quasi sempre ne deriveranno invece stile contorto, frasi zoppicanti, pensiero cieco, costruzioni involute e oscure, da far venire le vertigini, o il mal di mare. E una prosa faticosa o incomprensibile è, se si vuole, qualcosa di ancora più grave degli errori o degli abbagli, in cui tutti, quando traducono, possono talvolta cadere.

Ma nel caso di traduzioni di libri o saggi di argomento musicale occorre un altro requisito fondamentale: la conoscenza specifica del linguaggio musicale, della sua terminologia e della sua tecnica; e, più in generale, del suo ambito storico e culturale. Naturalmente l’incidenza di questi fattori cambia a seconda dei casi, si tratti di una biografia, di un testo critico-estetico o di un lavoro di analisi musicale. Lo stesso, presumo, accade in altre discipline, come la medicina o la chimica: dove sapere bene l’italiano (e l’inglese o il tedesco o il francese) non è sufficiente per venire a capo di questioni e terminologie specificamente tecniche. Ne consegue che al traduttore di cose musicali si richiede un bagaglio di conoscenze e di esperienze non propriamente leggero.

Da qualche tempo a questa parte è diventato un vezzo dei recensori – ma forse è davvero una necessità – accanirsi sui traduttori additandone al pubblico ludibrio le malefatte. Spesso, per maggior disprezzo, non se ne cita neppure il nome, come si fa appunto con gli individui della peggior specie; o viceversa si sbatte il mostro per così dire in prima pagina, coprendolo di ridicolo. È giusto farlo. Ma io dico che è pure un vezzo: cioè un modo, tipico dei nostri intellettuali, di ostentare la propria superiorità facendosi belli alle altrui spalle, anziché sforzarsi di dare una mano, pacatamente, affinché le cose migliorino, strutturalmente.

È vero che le nostre traduzioni, mediamente, non sono purtroppo granché. Il problema esiste, è grave e ha ragioni complesse. Ho detto prima che una tradizione in questo campo non mancherebbe; ma è una tradizione di vertice, non di base. Il considerevole aumento delle traduzioni, che è un fatto di questi ultimi anni e denota un’apertura della nostra cultura musicale ai contributi provenienti dall’estero, ha ingigantito questa debolezza di base. In altri termini, da noi mancano i traduttori di professione, abitua-ti a lavorare sistematicamente in questa disciplina, messi in condizione di affinare tutta una serie di capacità che di per sé non sono né semplici né automatiche, né alla portata di tutti. Ancora una volta dobbiamo ribadire che da questo punto di vista all’estero sono molto più avanti di noi: il traduttore di professione ha non solo una sua dignità, ma anche un preciso riconoscimento culturale. La sua funzione è determinante e come tale viene considerata, anche sotto il profilo economico. Basti fare il nome di William Weaver, che è oltretutto un finissimo critico musicale, mediatore insostituibile e per ciò stesso corteggiatissimo della nostra letteratura nei paesi di lingua inglese. Da noi sembra invece sfuggire che quello del traduttore è un lavoro di enorme responsabilità, perché da esso dipende, semplicemente, che un testo venga reso in modo non solo fedele ma anche leggibile. Ciò non sempre accade. Si può tirare in ballo la mancanza di una scuola specifica che insegni a farlo (per esempio durante i corsi di studio universitari, già indirizzati verso determinate discipline: letteratura, storia dell’arte o musica). Oppure l’inesistenza di un albo professionale, a cui essere ammessi solo dopo aver sostenuto esami e prove di idoneità. Privo di una guida e di esperienze preliminari, l’aspirante traduttore non ha modo di riflettere, se non quando è già al lavoro, sulla tecnica che sta alla base di ogni attività professionale. Che cosa significa tradurre? Non basta concepire la traduzione soltanto come un fatto di resa letterale, parola dopo parola, frase dopo frase. Il principio della cosiddetta traduzione letterale può portare a equivoci colossali, e di per sé non garantisce neppure la fedeltà. Giacché ogni lingua, come tutti sanno e spesso solo i traduttori dimenticano, ha non solo una propria organizzazione strutturale, ma anche un suo respiro, una sua articolazione, un suo “”tempo””. Una volta compreso il contenuto, si tratterà perciò di operare una trasposizione – in musica si direbbe una trascrizione – da un mondo concettuale e linguistico a un altro, e da uno strumento di comunicazione a un altro diverso. Non basta capire, se possibile con la massima esattezza, ciò che sta scritto e ciò che vuol dire quel dato testo in lingua straniera; bisognerà poi trasferirlo nel sistema linguistico della nuova lingua, impiantarlo e svilupparlo in questo. Il rischio di allontanarsi troppo dal contesto originale (ciò che impropriamente si chiama “”traduzione libera””) o addirittura di far dire cose che non sono scritte, è sempre in agguato: per evitarlo occorrono proprietà linguistica, dominio lessicale, lucidità, autocontrollo e una buona dose di allenamento. Tutte cose più facili a dirsi che a farsi. Eppure da ciò dipendono la bontà e l’attendibilità, in una parola la riuscita della traduzione. Da noi questa capacità si scontra, da ultimo, con due fatti pratici, che però hanno il loro peso.

Il primo è che nelle nostre scuole le lingue sono insegnate male e disorganicamente, con fini più astratti che applicati all’esercizio concreto della traduzione. Nelle Università per esempio si approfondisce la letteratura, senza pretendere una preventiva, solida conoscenza della lingua straniera allo stesso livello (non so se le cose siano cambiate nel frattempo: io ricordo che ai miei tempi l’esame di lingua – facoltà di Lettere – consisteva nella traduzione estemporanea di un testo elementarmente facile; poi si passava a discutere, in italiano, di Thomas Mann o Proust o Shakespeare: su una bibliografia rigorosamente in italiano). Chi dunque impara una lingua, riceve nozioni di carattere generale, per lo più finalizzate alla conversazione. Ognuno deve poi arrangiarsi da solo se vuole raggiungere il possesso vero e completo della lingua. E quando lo raggiunge, sarà in grado di leggere un testo in lingua originale; ma non sarà, per ciò stesso, anche un buon traduttore.

Il secondo fatto può apparire più prosaico, ma non deve venir sottovalutato. Da noi i traduttori sono pagati male. Il loro lavoro è considerato alla stregua di una manovalanza, se non di una sotto occupazione (infatti il nome del traduttore è relegato nel colophon, accanto al copyright). Salvo casi speciali, una traduzione viene pagata dalle 12 alle 16 mila lire lorde a cartella, e non è molto. Ciò significa che, per far tornare i conti, un traduttore deve lavorare sulla quantità più che sulla qualità: spesso accontentandosi della prima stesura, che non è mai quella definitiva, senza curare lo stile, la chiarezza della frase, il respiro del periodo, le proporzioni dell’insieme, che variano da una lingua all’altra. E’ raramente è spinto a controllare criticamente il testo, oltre all’esattezza della sua comprensione. Anche se non si giustificano, si spiegano anche così le sciatterie e le inesattezze di molte traduzioni. Per fortuna qualcosa in questi ultimi tempi si è mosso, e si è cominciato a vedere nel traduttore quasi una specie di coautore, da cui dipende in gran parte la riuscita di un prodotto anche sotto l’aspetto commerciale. E dunque a valorizzarlo. Può accadere che al traduttore venga richiesto non solo di volgere il testo da una lingua all’altra secondo criteri variabili di equilibrio e di proprietà nella trasposizione (e stabilire questi criteri in modo chiaro è fondamentale), ma anche di smontarlo e di ricostruirlo, quasi reinventandolo nella nuova lingua per estrarne tutte le potenzialità (una sorta di traduzione critica del testo, per così dire). In questi casi aumentano le responsabilità, e con essa i requisiti richiesti al traduttore.

Ma come vengono reclutati allora i traduttori? Prescindendo dai casi in cui una certa traduzione venga proposta direttamente da chi è interessato a farla, o che sia l’autore stesso a proporre una persona di sua fiducia, gli editori di solito pescano nel gruppo più o meno selezionato di coloro che, magari per mancanza di un altro lavoro, si rendono momentaneamente disponibili. E’ raro, ma può accadere, che ci si rivolga sempre alle stesse persone. Ed è sintomatico di una certa sfiducia – capitò anche a me, anni fa – che l’editore si riservi di accettare la traduzione solo dopo averla sottoposta alle cure di un revisore: il quale, non avendo una visione completa del lavoro, interverrà dal suo punto di vista, dall’esterno, rendendo ancora più complicata l’omogeneità del prodotto. Il compromesso a cui si giunge alla fine è di solito insoddisfacente, con ulteriori frustrazioni per il traduttore. A meno che non sia sorretto da autentica passione, è normale che appena possa egli si sottragga a compiti di tal genere. Spesso proprio nel momento in cui del mestiere, a sue spese, qualcosa aveva proficuamente appreso.

I traduttori di cose musicali dovrebbero avere, dell’argomento, conoscenze specifiche e sapere già prima di fronte a che cosa si troveranno accettando il lavoro. Tradurre uno scritto di Wagner o un epistolario dell’Ottocento presuppone la conoscenza di forme, stili e convenzioni ben precise (e anche il linguaggio scelto dovrà adeguarvisi). Affrontare un testo di Dahlhaus o di Kerman o di Nattiez, personalità forti dotate ciascuna di un proprio mondo concettuale e analitico, è impresa ben diversa dal rendere in italiano una voce di enciclopedia o un saggio divulgativo. Del resto, spesso non si capisce neppure con quali criteri vengono scelti questi titoli, in un paese che degna di traduzione lavori vecchi e sorpassati e non si cura, per esempio, di rendere disponibili in traduzione documenti fondamentali di autori classici come Beethoven, Mozart o Schubert (dov’è un’edizione critica delle lettere, dei diari, dei taccuini, delle testimonianze contemporanee?).

In questi frangenti, se il musicologo offre garanzie in teoria maggiori del semplice, generico traduttore, così che almeno l’esattezza terminologica sarà garantita, spesso vengono a mancare quella scioltezza e quella abitudine a pensare con la testa degli altri che rendono la lettura limpida e scorrevole, se non piacevolmente attraente. Ci si imbatte allora in una lingua del tutto sui generis, il “”traduttese””, un ibrido di lessico, sintassi e grammatica bizzarri e improbabili, affetti dalle peggiori malattie organiche: rachitismo, artrosi, asma e stitichezza. In casi simili si impone la traduzione della traduzione; ed è un compito ostico e poco gratificante, di fronte al quale può anche capitare di richiudere il libro con un gesto di stizza. E l’occasione di conoscere un testo straniero, magari importante o interessante, nella nostra lingua andrà perduta per sempre, ripercuotendosi sul futuro per anni e anni; giacché – per quanto utopisticamente ogni generazione dovrebbe avere la sua traduzione almeno dei testi fondamentali, il concetto stesso e la prassi della traduzione modificandosi col tempo – i casi di una traduzione nuova che rettifichi le manchevolezze e gli errori della prima sono più unici che rari. E, per pigrizia o ignoranza, si continuerà ad attingere a quella come fonte attendibile, o autorevole, senza più controllarla. Molte citazioni fasulle, che si ritrovano continuamente tramandate di lavoro in lavoro, stanno a dimostrarlo.

Ma anche nel caso opposto, cioè in quello di traduttori “”generici”” bravi e allenati, privi però di specifiche conoscenze musicali, che tuttavia si avventurino in questa disciplina, non c’è da stare tranquilli. Ciò che si guadagna in facilità di lettura si perde in attendibilità e proprietà terminologica. Qui si potrebbero fare millanta esempi, tra il comico e il tragico, tra l’imbarazzante e l’esilarante. Non sarebbe carino riferirli in questa sede; anche perché non sarei proprio sicuro di esserne immune, nelle mie traduzioni. Se ciononostante azzardo due eccezioni, è solo per far riflettere su una situazione e un costume generale, ampiamente diffuso, che nel nostro rapporto con la cultura e con la musica ci riguarda tutti. Dove siamo noi stessi testimoni, più che giudici.

La Einaudi, vale a dire una casa seria, ha pubblicato di recente un libro molto importante, irritante ma sostanzioso, di Joseph Kerman: L’opera come dramma, si intitola (la resa letterale del titolo originale, Opera as Drama, in italiano non è bella; ma capisco che è difficile cambiare la congiunzione: forse sciogliendola, L’opera in quanto dramma?). La traduzione di Sandro Melani funziona bene nelle parti per così dire espositive o discorsive; ma non appena si entra in questioni tecniche, si aprono voragini incredibili. Si parla di “”ingannevole cadenza”” anziché di “”cadenza d’inganno”” (che è un procedimento armonico ben definito), di “”ordinarie sonate per terzetto che dimentichiamo”” (eh già, più che dimenticarle vorremmo conoscerle, nella musica strumentale del Settecento; si tratta evidentemente di Sonate a tre, come chiarisce il contesto); e che dire poi di una frase come questa: “”Il terzetto dell’origliamento, con la razionalizzazione degli `a parte’ di Otello, è uno dei pezzi più belli della partitura, con l’arpeggio canzonatore del tema del riso di Cassio…””. Ora, il traduttore è senz’altro persona stimabile; ma, digiuno di cognizioni musicali, ha proceduto a senso senza preoccuparsi di verificare una terminologia tecnico-musicale che, com’egli poteva almeno sospettare, gli avrebbe teso qualche tranello. Ma quel che è peggio è che nessuno, nella casa editrice, ha avuto l’accortezza di correre ai ripari: sarebbe bastata la lettura attenta di uno specialista per evitare spiacevoli frittate. Evidentemente, e questo è il punto, che la musica sia una disciplina con le sue leggi e le sue regole, oltre che con un suo vocabolario, è un fatto non ancora entrato nella coscienza comune, tanto meno in quella delle redazioni degli editori.

Al confronto fa solo tenerezza, e induce a un sorriso benevolo, il caso del traduttore dei ricordi beethoveniani di Gerhard von Breuning (Dalla Casa degli Spagnoli Neri. Ludwig van Beethoven nei miei ricordi giovanili, a cura di Artemio Focher, editore SE): il quale, pensando che un genio come Beethoven non potesse o dovesse frequentare delle semplici osterie, nobilita il termine e traduce “”enoteche””. Effettivamente, Beethoven all’enoteca fa tutta un’altra impressione.

Traduttori, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il vostro bene?


Musica Viva, n. 10 – anno XIV

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