Dato che colà, come pare, non esistono le Usl e i comitati di controllo sulla sicurezza pubblica, ad Aix-en-Provence si tiene da anni un festival in un teatrino all’aperto ricavato nel cortile dell’antico Arcivescovado, molto scomodo e suggestivo. Anzi, passato l’iniziale sconcerto per le gradinate traballanti e infide che s’inerpicano fin sulle pareti del palazzo, ed evitato di chiedersi che cosa succederebbe non si dice se scoppiasse un vero incendio ma semplicemente se qualcuno per burla gridasse “”al fuoco! al fuoco!””, si finisce per sentirsi a proprio agio in uno spazio così anomalo e francamente ai limiti dell’agibilità (che peraltro è concetto fluttuante, anche se chiaramente lottizzato). Tutto ciò per dire che molto del fascino degli spettacoli di Aix è legato al luogo scenico davvero particolare in cui si svolgono: che della scenografia stessa e perfino della resa musicale è parte integrante e determinante. Se ne è avuta conferma dagli allestimenti delle due opere che erano al centro del cartellone di quest’anno: così diversi da loro e pure così aderenti alle condizioni di quegli spazi da sembrare inimmaginabili altrove. Il ratto dal serraglio di Mozart, nella visione stilizzata di Jorge Lavelli, perdeva ogni connotato di commedia e di farsa per diventare un viaggio, severo e impegnativo, alla ricerca della verità dei sentimenti e delle ragioni interiori più profonde; senza perdere tuttavia la leggerezza del gioco e dell’illusione incantevole al di là di tempi e spazi reali. E il fatto che tutto ciò si svolgesse non nella cornice circoscritta di un teatro vero, ma in un luogo reinventato dalla fantasia con pochi accessori di scena, accresceva l’universalità del messaggio mozartiano, rendendolo insieme soavemente consolante e palesemente utopistico. All’insegna dell’invenzione sfrenata, della festa che continuamente si rinnova e scopre strada facendo i motivi e le soluzioni più incredibili, scatenando l’immaginario teatrale fino a svuotarlo di ogni possibile sviluppo, si poneva invece la pirotecnica regia di Alfredo Arias per Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau: agendo su una scena fissa o contenitore in sé non specialmente bello di Roberto Platé, che mescolava attori e pubblico in un pirandelliano gioco delle parti, e puntando poi sul contrasto barocco dei generi per mettere in rilievo, con incursioni talvolta un po’ forzate nell’attualità, l’esilarante spirito della commedia nella austera classicità del dramma. Ma qui, a rimettere le cose a posto e a rendere credibile ogni assurdità, provvedeva l’ingegno acuminato di William Christie, un mago ispirato di questa musica, capace di raggiungere e di comunicare ai suoi magnifici e invidiabili collaboratori dai nomi bellissimi e ormai celebrati – Les Arts Florissants, Ris et Danceries – il felice equilibrio tra cultura, istinto e qualità specificamente tecniche. Come sia bello sentire questa musica inarrestabile fluire spontanea, sensibile e senza alcuna rigidità metronomica, e animarsi di vita il suono degli strumenti antichi, è un’esperienza che induce a fare ammenda di molti scetticismi sulla religione della prassi esecutiva: con Christie, si è spinti a viva forza ad abbracciarne la fede.
Rimane, poi, Rameau. Non soltanto il più grande compositore drammatico francese del Settecento, ma uno dei più grandi e ricchi in assoluto. E scandaloso, veramente, che i nostri teatri si ostinino ad ignorarlo. D’accordo, non è il solo a cui capiti. Ma nel suo caso saremmo anche disposti ad affermarlo sotto giuramento: qui si concentrano tutti i requisiti di spettacolarità e di piacere per soddisfare e far felice qualsiasi amante dell’opera.
Musica Viva, n. 10 – anno XIV