C’era molta attesa per il nuovo Don Giovanni viennese di Claudio Abbado e Luc Bondy: vuoi perché una nuova produzione dell’opera alla Staatsoper mancava da diciotto anni (non è solo La Traviata, dunque, a far temere confronti), vuoi perché si trattava del debutto nella bocca del leone con Mozart sia del nostro direttore (che Mozart in teatro lo aveva fatto solo alla Scala, ma tanti anni fa, con Le nozze di Figaro) sia del geniale regista svizzero, considerato da molti (e da Gérard Mortier in particolare, che lo aveva lanciato a Bruxelles e che intende servirsene in futuro a Salisburgo per il prossimo ciclo mozartiano) come il nome più emergente fra le giovani leve.
Parlare di delusione per uno spettacolo comunque importante e molto ben preparato, con una compagnia di alto livello e un’orchestra come quella dei Wiener Philharmoniker, sarebbe certamente esagerato e ingiusto. Eppure impressione pressoché unanime (anche del pubblico, che alla fine ha applaudito calorosamente ma ha pure protestato) è che, alla resa dei conti, qualcosa non abbia funzionato. Si direbbe che mancasse un’idea unitaria dello spettacolo, un progetto interpretativo chiaro, capace di venire a capo, o almeno di inquadrare, i molti problemi – drammaturgici e musicali – che l’opera pone ai giorni nostri, dopo più di due secoli dalla sua composizione e dopo molti allestimenti, anche recenti, di notevole rilievo. Naturalmente non è detto che ogni produzione del Don Giovanni debba per forza aprire prospettive nuove. Ma da artisti del calibro di Abbado e Bondy, di cui siamo abituati ad apprezzare non solo il talento ma anche la serietà e l’acume del lavoro, c’era da attenderselo, o almeno era lecito aspettarselo. E invece ciò che sembrava mancare era proprio l’accordo, la visione d’insieme dei due principali responsabili dell’operazione: come se ognuno andasse un po’ per la sua strada, e qualche volta senza accorgersene disturbasse l’altro e rendesse il suo lavoro più arduo.
Per esempio, Bondy ha un’idea molto frammentaria e concitata dell’opera, con scarti netti e rapidi capovolgimenti d’azione. Abbado invece tende a sottolinare la continuità, la tensione ininterrotta che lega le diverse scene e perfino i diversi stili che compaiono nell’opera. Il lavoro di regia è ossessivamente maniacale nel doppiare con una gestualità spinta all’estremo i caratteri dei personaggi, per esibirli all’esterno: l’isteria erotica di Donna Elvira si manifesta fisicamente con continui sussulti e trasalimenti, come se fosse percorsa da scosse elettriche; Zerlina è poco meno di una assatanata del sesso, che non perde occasione per sedurre e lasciarsi sedurre nel modo più plateale possibile (cioè mimando amplessi e scoprendo le gambe); mentre Don Giovanni è un personaggio di cinica freddezza, Don Ottavio un pomposo eroe corazzato, Donna Anna un fantasma spaurito ed eternamente indeciso, Leporello una specie di ribelle opportunista. Tutte le figure sono delineate con precisione, grazie anche a una recitazione strepitosa e curata fin nei dettagli; ma i rapporti che li legano l’uno all’altro sono spesso inesistenti, o sfuocati. E ciò contrasta ancora una volta con le intenzioni di Abbado, che invece istituisce relazioni molto più dense e musicalmente esatte nelle scene d’insieme e nelle Arie mira a una psicologia più sfumata, a una caratterizzazione dei personaggi non univoca. Per lui saper rendere quella particolare fusione di tragedia e di commedia che è propria dell’opera, e giocare sul “”mezzo carattere””, è evidementemente importante. Ma si scontra con una rappresentazione scenica dove la commedia è farsa, e la tragedia caricatura dello stile patetico.
L’ambientazione scenica non è determinata né da spazi né da tempi precisi, ma reinventata. E nella stessa direzione vanno i costumi, che abbracciano tutte le epoche e tutte le fogge (Susanne Raschig ne è la responsabile).
Lo scenografo Erich Wonder oscilla tra una visione astratta e metafisica dell’opera (diciamo alla Magritte) e una pittura illustrativa e descrittiva di forte impronta realistica: un cortile buio di un edificio in rovina all’inizio, in una notte di tempesta (per rendere credibili le parole di Leporello “”piova e vento sopportar””), un’aia con covoni di fieno e paglia vera nella scena dei contadini (ma è poi qui, all’aperto, che ha luogo la festa finale del primo atto), un incredibile rifugio alpino con vista sulle cime innevate e illuminate dal sole al crepuscolo nel Finale dell’opera. Per il resto domina invece l’astrattezza, con ambienti solo evocati dalle luci e dalle ombre: niente cameriera e palazzo di Donna Elvira, niente cimitero (solo una enorme piattaforma vuota su cui si proietta l’ombra gigantesca della statua del Commendatore, presumibilmente fuori scena: con l’effetto grottesco di Leporello che parla con un’ ombra e legge l’iscrizione guardando dietro le quinte). Ma quello che non si capisce è la relazione che intercorre fra queste immagini così costituzionalmente diverse e contradditorie. Per Bondy Don Giovanni è forse un dramma del nonsenso contemporaneo: contemporaneo lo è, ma non certo in questo senso (il gioco di parole probabilmente gli piacerebbe). Abbado è talvolta in difficoltà. Non gli riesce la solita concentrazione, la tensione in alcuni momenti è più pensata che realizzata: senza contare che la distruzione della drammaturgia originale rende meno efficaci alcune bellissime intuizioni musicali che invece spiegano il testo. Che non sono però quelle che ti aspetteresti da lui (per esempio una lettura “”novecentesca””, che sottolineasse le modernità di linguaggio e di scrittura, o un suono incisivo e tagliente); ma invece altre, forse anche più importanti: un abbandono al canto morbido e disteso, un calore di espressione intenso e appassionato, una limpidezza straordinaria nel definire i piani sonori. E una cura speciale, sensibilissima, nel raccontare l’opera e nell’accompagnare i cantanti. Ma si rende correo, Abbado, di una esecuzione dei recitativi che a momenti grida vendetta come il Commendatore: quando mai, di questi tempi, e da un filologo come lui, si possono accettare recitativi eseguiti con la solita fretta e incomprensibilità delle parole del vecchio, deplorabile stile tedesco, recitativi in alcuni momenti addirittura parlati anziché intonati? E il bello è che per accompagnare questa sol-fa si ripristinava, giustamente, il basso continuo, aumentando l’incongruenza. Così è stato alla prima. Ora pare che Abbado abbia posto rimedio nelle repliche.
Un ultimo esempio può aiutare a chiarire certe divergenze di intenzioni e di risultati fra direttore e regista. Il passaggio dal finale tragico – la morte di Don Giovanni – a quello per così dire giocoso – il Sestetto dei sopravvissuti – è sentito da Abbado, in modo folgorante, come un contrasto stridente di situazioni: con lui si comprende benissimo che, musicalmente e drammaticamente, le due scene sono collegate in fenomenale continuità, e si rispecchiano al punto che non ha senso parlare di un doppio finale. Abbado ottiene questo effetto stringendo il tempo, aumentando la tensione proprio nel Sestetto, come se esso fosse il prolungamento per contrasto della situazione precedente. E un’idea rivelatrice di uno dei punti più scabrosi di tutta l’opera: che così non si spezza, e chiude enigmaticamente. Che fa invece il regista? Accende le luci in sala e impone ai cantanti una passerella – su un ponte al di qua dell’orchestra, dunque fuori scena, in primo piano verso il pubblico – con passi e gesti da rivista di varietà. Scenicamente, la tensione si spezza e l’effetto musicale e drammatico è distrutto. L’opera diviene operetta.
La compagnia di canto raggruppava interpreti ideali (la Donna Anna di Cheryl Studer, la Donna Elvira di Karita Mattila) e molto a posto (Lucio Gallo come Leporello deve solo maturare; il Don Ottavio di Blochwitz è un po’ piccolo di voce ma splendido per stile e fraseggio; Carlos Chausson e la McLaughlin, Masetto e Zerlina, hanno requisiti di prim’ordine; solo il Commendatore di Anatolij Kotcherga doveva lottare con problemi di volume e di intonazione). Nel ruolo del protagonista, la classe e l’intelligenza di Ruggero Raimondi hanno fatto il resto: ma non sappiamo quanto gli si adattasse il Don Giovanni invecchiato, glaciale, sprezzante immaginato da Bondy. Ciò vale anche per tutti gli altri, ammirevoli per abnegazione e impegno prima nel seguire e poi nel realizzare le indicazioni del regista, che li ha fatti recitare come veri attori, con risultati specifici straordinari. E che Bondy abbia una sua genialità nel teatro di regia moderno lo si vedeva da questo e da come era realizzato in sé lo spettacolo: con orgoglio e abilità luciferini. Il punto non è questo. Il punto è che non sembrava entrarci molto il Don Giovanni di Mozart.
Musica Viva, n. 7 – anno XIV