Donna prima che primadonna

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Le grandi parti drammatiche del teatro d’opera tedesco hanno in Hildegard Behrens un’interprete suprema: per doti vocali e drammatiche, eleganza di gesto, nobilità di espressione, forza di personalità.

“”Ma non ho mai fatto della carriera un principio di vita”” lei dice.

Da quanto tempo la rincorrevamo, Hildegard Behrens. Con la convinzione che incontrarla, parlarci, fosse difficile, laborioso. E ancor più per ricavarne, da un’intervista, un personaggio adatto ai nostri scopi. C’è sempre una specie di titubanza quando si affrontano artisti che siamo abituati a idealizzare sulla scena e a identificare con i ruoli che essi affrontano: tanto più nel caso in cui questi ruoli siano quelli di Salome, Elektra, Isolde, Brunilde, Leonora, come nella fattispecie per la Behrens, ossia le grandi parti drammatiche del teatro musicale tedesco, eroine prima ancora che primedonne. Di questi ruoli la Behrens è oggi una interprete suprema, non solo per le sue specifiche doti vocali e drammatiche, ma anche per l’eleganza del gesto, la nobiltà dell’espressione, la forza della personalità, la bellezza della figura. Una donna affascinante e una grande cantante, radiosa nelle sue morti e trasfigurazioni sulla scena, così vere da credere che non sia possibile immaginarla diversa anche nella vita.

Fu quasi comico il modo in cui avvenne il nostro primo incontro. Amici compiacenti mi avevano condotto dietro le quinte alla fine della recita di un Crepuscolo degli dei a Monaco. Per quasi mezz’ora assistetti di lì, dietro la scena, al rito delle chiamate e delle uscite, alla progressione impressionante di ovazioni ogni volta che alla ribalta riappariva lei, Brunilde-Behrens. Ma dopo il modo sconvolgente in cui la Behrens aveva cantato l’olocausto di Brunilde, non c’era posto per altre emozioni: quell’angelo vestito di bianco, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, che stringeva al seno i fiori ricevuti per il suo trionfo, dopo aver redento l’umanità, mi sembrò una creatura di sogno. Le venni presentato e qualcuno aggiunse che desideravo intervistarla; ma io ribattei: “”Veramente io vorrei.sposarla!””. Nell’imbarazzo generale la Behrens concluse, senza scomporsi: “”Oh, questo lo vedremo dopo l’intervista!””.

Quell’intervista l’abbiamo poi fatta, a Bologna, dove il Teatro Comunale, per sua e nostra fortuna, l’aveva scritturata per quattro recite di Sigfrido in marzo (“”Ma perché canta così poco in Italia?”” – “”In Italia siete troppo disorganizzati. Quando mi chiamano, o è già troppo tardi, o è ancora troppo presto””). La Behrens, anzi, “”Frau Behrens””, rammentando il nostro incontro a Monaco, ride e mi dice di essere telepatica: ha capito subito che di me si poteva fidare. Mi chiede di che segno io sia: Cancro. Oh sì, anche questo torna, va bene, o. k. (mi stupisce di trovare ora in lei qualcosa di americano; modi spicci, ma non spiacevoli). Dunque possiamo incominciare. Ah, ancora un’avvertenza: detesta che le si chiedano giudizi sui colleghi e anticipazioni su quello che farà in futuro. Ma poi, più tardi, dirà spontaneamente che è curiosa di fare l’Elektra con Abbado a Vienna in autunno (e mi chiede della regia di Kupfer), che Emilia Marty del Caso Makropulos di Janàček è una parte che l’entusiasma perché è un po’ come lei, e che nel ’93 farà a Monaco, con Sawallisch e Schlöndorff, la Lady Macbeth di Šostakovič.

Ora possiamo davvero incominciare. Prima di tutto dimenticate la leggenda dell’avvocatessa rapita ai tribunali e gettata di brutto sul palcoscenico da Karajan in una Salome peraltro indimenticabile: è forse bella, ma è appunto una leggenda. Cioè falsa. Anzi: “Quatsch”, una balla. La protagonista è la prima a riderne; quasi meravigliandosi della nostra credulità. E dell’ingenuità della prima domanda, che mi ero preparato tirando in ballo addirittura la Bibbia:

Im Anfang war… Karajan: in principio era Karajan.

Le cose non stanno proprio così.

E come stanno, allora?

Accadde nel 1974. Io già da due anni ero nella compagnia stabile di Düsseldorf, in teatro. Karajan venne in tournée coi Berliner Philharmoniker e chiese di ascoltarmi in una audizione. La sera prima avevo fatto Wozzeck. Mi ascoltò al mattino, prima della prova con la sua orchestra. Gli piacqui e mi offrì di fare con lui Salome a Salisburgo nel 1977. Così avvenne; e da quel momento la mia carriera per così dire prese il volo. Lasciai Düsseldorf, e cominciai a cantare da artista ospite in teatri più importanti. Naturalmente tutti volevano da me Salome

Quale era stato il suo repertorio fino ad allora?

Il mio debutto a Düsseldorf era avvenuto con Giorgetta nel Tabarro. Poi Musetta. Cantai anche Elsa del Lohengrin, quindi l’Imperatrice nella Donna senz’ombra, Wozzeck, Fidelio e altre parti drammatiche di questo genere.

Salome l’ha affrontata per la prima volta con Karajan?

Sì, e fu un vantaggio poter disporre di tre anni per studiarla. Regolarmente andavo da lui per farmi sentire, a Berlino o dove era più comodo, e così potei sviluppare questa parte in tutti i suoi aspetti musicali e scenici insieme con Karajan. Ma non furono tutte rose e fiori.

Di questo, se permette, parleremo poi. Torniamo alla leggenda dell’avvocatessa.

In realtà non lo sono mai stata. Mi sono laureata, è vero, in legge, ma non ho mai esercitato la professione. A quel tempo avevo già deciso di cantare. La musica mi era sempre piaciuta; anche se già suonavo il pianoforte, la musica mi piaceva soprattutto ascoltarla, ero una frequentatrice assidua del Conservatorio, dei concerti. Furono esperienze non ancora finalizzate all’idea della professione. Poi ebbi occasione di dedicarmi al canto, mi ritirai per un anno in clausura, e decisi di tentare e di mettermi alla prova. Posso dire di non aver saltato un solo passaggio nella mia istruzione musicale, e di aver fatto la gavetta senza pormi il problema di dove sarei potuta arrivare. A cominciare da Düsseldorf.

Perché poi non ha più accettato impegni stabili in un teatro?

Dopo Düsseldorf mi stabilii a Parigi, per ragioni anzitutto familiari. Non ho mai fatto della carriera un principio di vita. Io sono un Acquario, e amo la libertà. Quando ricevo una proposta interessante mi piace poterla realizzare, senza dover chiedere permessi o autorizzazioni. E lei sa che è molto difficile quando si è legati a un teatro. Però ho rapporti preferenziali con certe città, come Monaco, per esempio, o New York, da quando mi ci sono stabilita con la mia famiglia. Ho un marito regista, con cui mi piace lavorare, e due figli, che voglio seguire.

Non sarà anche che la figura del cantante stabile, persino nei teatri di repertorio tedesco, è oggi diventata fuori moda, tanto più se il cantante ha successo?

Ci sono cantanti che amano la protezione e la sicurezza che una compagnia stabile può dare, e cantanti che amano invece rischiare: dipende dal carattere, e non è solo un fatto di ambizione. Ma per me la vera ragione è un ‘altra: quando si è fissi in un teatro, con un impegno ben preciso, si è costretti ad affrontare nuovi ruoli per i quali non ci si sente ancora pronti. E il meccanismo del teatro di repertorio a richiederlo. Ed è difficile rifiutarsi, quando il direttore del teatro te lo impone, magari con le sue buone ragioni. Anche con Karajan ho avuto uno scontro molto duro, perché lui voleva assolutamente fare con me subito Elektra, e io non volevo, non mi sentivo ancora pronta. Karajan, che pure era Karajan, non ha mai digerito quel rifiuto, che a lui pareva assurdo. Oggi canto Elektra, ma allora non potevo e non volevo.

Come si è formato il suo repertorio?

Scegliendo via via quello che mi sentivo di fare, e che ritenevo adatto alla mia voce, al mio temperamento. Naturalmente in primo luogo il grande repertorio tedesco, dal Fidelio, l’opera che forse sento a me più vicina, Wagner; Isotta, Sigglinda per poi passare a Brunilde, ma mai Eva. Vorrei fare di più anche Mozart, e non è detto che non lo canterà di nuovo. Quanto all’opera italiana, riprenderò Tosca, fra poco a Londra e poi a Vienna, e affronterò Turandot, con Ozawa, anche in film. Sono queste le figure di donna che mi si confanno, anche drammaticamente.

Le grandi eroine, dunque? Si sente un’eroina anche nella vita?

La vita non offre, purtroppo o per fortuna, che poche occasioni di esserlo. Di me posso dire che so controllare le mie emozioni e che amo prendermi le mie responsabilità.

Non c’è dunque identificazione con i ruoli del teatro?

L’identificazione è completa, mentre sono sulla scena. Ma quando il pezzo è terminato e cala il sipario, tutto finisce. Per lo più con la morte. E a me invece piace continuare a vivere.

Quali sono stati i suoi modelli?

Il fatto che mi sia dedicata al canto relativamente tardi, e che più che attraverso il teatro la mia formazione sia avvenuta frequentando la musica sinfonica e da camera, ha fatto sì che non sia cresciuta con modelli precisi da imitare. Quando studio una parte, non ascolto dischi e non faccio confronti: tutto avviene fra me e la pagina scritta. Credo che l’interpretazione sia un po’ come un albero che cresce sulle proprie radici, e si sviluppa sul proprio tronco: è l’individuo che deve trovare in se stesso i propri valori. Nella foresta ci sono molti alberi belli, ma ognuno è bello perché non è uguale agli altri. E ancora più bello se ha una “”personalità””.

Poi però avviene l’incontro con i direttori, i registi, e tutto può venir messo in discussione…

Io mi trovo bene con tutti, da tutti ho qualcosa da imparare. Senza che per questo debba cambiare la mia interpretazione.

Una risposta, se mi consente, un po’ scontata…

Ma vera. Ho fatto, per esempio, Wozzeck con A bbado a Vienna e con Levine al Met: due modi addirittura opposti di intendere e interpretare quest’opera. Ma non credo che per questo il mio modo di vedere il personaggio sia stato influenzato o modificato. Cambiava il paesaggio sonoro, il clima espressivo, ma io rimanevo la stessa. E non c’era contraddizione. Il direttore è uno che ha la visione d’insieme, e questo è naturalmente molto importante: io debbo integrare la mia figura, così come la sento, in questo insieme.

E nel lavoro con i registi? Che succede oggi?

Il vero problema è che quando si arriva alla prima prova di scena (e io sono una a cui piace provare, e che non arriva all’ultimo momento prima della generale) tutto è già stato deciso. Ti trovi davanti a scene che mai t’immagineresti per quell’opera, in epoche del tutto diverse, e il regista ti chiede di fare questo o quest’altro, senza spiegare perché. Certo, anche lui ha la sua visione d’insieme e ha sviluppato una sua concezione, che io debbo rispettare. Magari si può anche discutere, litigare, cambiare qualcosa; ma nel complesso l’idea di fondo è già stata stabilita, e non si può certo cambiare tutto. E allora? Andarsene sbattendo la porta? Rassegnarsi e adattarsi? Tutte e due queste reazioni non appartengono al mio temperamento. Io cerco allora di moltiplicare le mie forze per far venire fuori comunque il mio personaggio: non contro la regia, ma sul palcoscenico. Scenicamente e musicalmente.

Credo di capire. Ma che cosa può provare Brunilde, cioè lei, quando è costretta per esempio a svegliarsi e a salutare il sole, il giorno, la luce, attorniata dal buio più completo, come accade in questo Sigfrido che lei canta a Bologna? Non è un po’ mortificante, e involontariamente comico?

Non sono d’accordo con le scelte del regista, ma le rispetto. In quel momento il mio compito è quello di far sentire che cosa significa il risveglio di Brunilde, quale immensa forza espressiva è racchiusa in quel saluto al mondo. Ed è la voce, il gesto, l’intensità e la commozione del canto a doverlo esprimere e comunicare. Se le condizioni, diciamo, ambientali non sono favorevoli, tanto maggiore deve essere il mio impegno per far sentire ciò che la musica vuoi dire. La musica e il dramma, cioè l’azione. In quel momento, in fondo, sono io la luce: una luce di cristallo.

Il trionfo del cantante, nonostante la regia? Non è un po’ stressante?

Non accetterei, magari, di fare Brunilde nel Crepuscolo in certe condizioni…

Per la verità, lei ha accettato ben di peggio nella Tetralogia che di recente ha fatto a Monaco, con la regia di Lehnhoff. Ma ammetto che di quel Crepuscolo si ricorda soprattutto la mezz’ora da brivido che lei regalava al pubblico nel finale dell’opera, facendo dimenticare tutte le cose insensate che accadevano attorno a lei.

Se vuole, quella Tetralogia è stata una sfida. Ma lì il caso è stato diverso: lì ho fatto tutto il ciclo dell‘Anello, e dunque ho potuto sviluppare integralmente il mio personaggio dall’inizio alla fine. La mia Brunilde – e credo che questo si capisse anche nelle intenzioni del regista – è un personaggio isolato, l’unico personaggio positivo e responsabilmente consapevole in una visione disperata e apocalittica qual è quella di Lehnhoff: mai mi sono sentita così chiamata in causa, così responsabilizzata e impegnata, non solo come cantante, come in quel finale del Crepuscolo: in un’immagine di brutale distruzione, di annientamento, io ero l’unico raggio di luce, l’unica fonte di speranza. Ero sola di fronte al mondo, sola con la musica di Wagner. E il pubblico doveva capire che non tutto, forse, era irrimediabilmente perduto: non, almeno, la passione, il dolore, la tenerezza. Queste cose ho cercato di mettere nel mio canto.

Ma chi è veramente Brunilde? E perché Sigfrido la tradisce, mutandosi da eroe in marionetta del destino? Che cosa accade tra lui e Brunilde nella solitudine della roccia, tra la fine del Sigfrido e l’inizio del Crepuscolo? Chi è Sigfrido, visto dalla parte di Brunilde?

Sigfrido non è un uomo, ma un eroe, destinato a sempre nuove imprese. E Brunilde non può trattenerlo, deve lasciarlo andare incontro al suo destino. La sua saggezza non ha reso più maturo Sigfrido: soprattutto non è riuscita a preservarlo dal pericolo che il destino segua il suo corso. Il modo in cui ciò avviene non è solo triste, ma tragico: Brunilde comprende che Sigfrido deve morire, perché per lui non c’è più possibilità di continuare a vivere. Perciò ella partecipa al complotto, per un fine superiore: riscattare l’eroe accelerandone la fine. E un atto di pietà, di amore. L ‘amore per Sigfrido si trasforma da ultimo in amore universale: amore per l’umanità, per il sentimento stesso dell’amore. Il sacrificio di Brunilde è un atto eroico, ma anche una presa di coscienza che si fa carico delle responsabilità di tutti, anche di Wotan. E un tumulto dell’anima, che Brunilde riesce tuttavia a controllare e a indirizzare consapevolmente verso una fine giusta.

E che cosa rimane per Sigfrido?

Tenerezza, comprensione, pietà. Per Sigfrido e per Wotan, che l’aveva punita ingiustamente. Qualcosa che solo una donna può provare. Le donne sono molto più forti degli uomini: non solo nella Tetralogia di Wagner, anche nella vita. Brunilde ne è l’esempio sublimato. E più umano insieme.

Che cosa rappresenta per lei l’opera lirica?

L’opera è la forma più complessa e universale di teatro, perché rende possibile, per mezzo della musica, l’intreccio di molteplici associazioni e relazioni: l’espressione delle passioni, il conflitto dei sentimenti, l’emozione del dramma. Forse per questo ho sempre sentito a me più congeniali le parti drammatiche, i ruoli anche vocalmente più impegnativi. Per me il teatro comincia di lì, e non so più dove finisca. In questi ruoli sento sprigionarsi delle energie vitali che mi danno l’euforia, e mi catapultano in un mondo di esaltazione e di sogno: qualcosa di esplosivo, che cerco di comunicare anche al pubblico, dopo averlo dominato in me stessa.

Abbiamo cominciato questa conversazione con Karajan, e vorrei ritornarci. A me sembra che senza Karajan il mondo sia molto più vuoto e povero. Ma era possibile amarlo?

Facilissimo apprezzarlo e ammirarlo, perché è stato un artista straordinario. Più difficile amarlo. Io l’ho amato, ma solo molto tempo dopo averlo conosciuto: direi il secondo anno della Salome a Salisburgo. Karajan era molto possessivo. Per me ebbe una vera passione, una specie di amore a prima vista. “”Hildegard “”, mi diceva, “”io e te faremo insieme questo e quest’altro, vedrai, sarà bellissimo: ma ricordati, queste opere le dovrai fare solo con me!””. Si trattava per la precisione di un Fidelio. “”Maestro””…

Come, lei lo chiamava “”Maestro””, in italiano?

Oh sì, per tutti quelli che lizvoravano con lui Karajan era il Maestro, senz’altra specificazione! Dunque, gli dissi che avevo già un contratto firmato per fare Fidelio a Monaco con Böhm. “”Impossibile!””, fu la sua risposta. Tenni duro. Poi lo facemmo lo stesso, anche quel Fidelio, al Festival di Pasqua a Salisburgo. Ma fu una vera pena: Karajan si vendicò in tutti i modi possibili… Del resto, già il primo anno con Salome avemmo degli scontri: non sul piano musicale, ma sulla regia, che curava lui stesso. Nella terribile scena finale, voleva che cantassi in una posizione impossibile, davvero impossibile. Non ci fu verso di fargli cambiare idea: ricordo che a una prova mi misi perfino a piangere, per la rabbia. Niente. Doveva essere come voleva lui. L ‘anno dopo, quando riprendemmo la Salome, alla prima prova di scena salì in palcoscenico e disse: “”Ora proviamo la scena finale””. E la fece esattamente come gli avevo proposto io l’anno prima. Senza dire una parola. Fu lì che cominciai ad amarlo. E non semplicemente perché in modo indiretto mi aveva dato ragione.

Si spieghi meglio.

Ma prima voglio raccontarle un altro episodio. Sempre a proposito di Salome, il primo anno. In certi passi – e gli dissi quali – mi sembrava che l’orchestra suonasse troppo forte e coprisse la mia voce: sa, avevo le mie preoccupazioni, da cantante, se vuole.

E in quella parte, poi! “”Unmöglich! “”, Karajan rispondeva sempre così quando qualcuno gli faceva notare una difficoltà, vera o meno che fosse: impossibile. E anche quella volta non ci fu verso di fargli sentir ragione: anzi, a me sembrava che suonasse più forte di proposito.

Dopo la prima, ci incontrammo; lui mi fece i complimenti e mi chiese: “”Come va?””. “”Oh, benissimo. Ma pensi, Maestro: ieri alla recita sono venuti alcuni miei umici e mi hanno detto che in alcuni punti – e gli dissi naturalmente quali, proprio quelli – la mia voce era coperta dall’orchestra. Ma sicuramente è impossibile””. Ebbene, la volta dopo Karajan mi accompagnò, proprio in quei passi, con una delicatezza tale che mi pareva di essere avvolta nel velluto, tra arabeschi di sogno. Fu lì che mi sentii per la prima volta completamente padrona della parte. Ecco, Karajan era anche questo. A modo suo, adorabile. Grande artista, un genio. Ma, come uomo, a volte sembrava fragile, insicuro, vulnerabile, dietro quella scorza da padreterno. E perfino infelice. Sicuramente molto solo. Non sapremo mai quale mistero si celasse nel suo intimo. Forse qualcosa che risaliva all’infanzia, ai suoi rapporti con la madre…

Mio Dio, Frau Behrens, che discorsi seri e impegnativi siamo arrivati a fare! Mi gira la testa. Anche perché, continuando la nostra conversazione a registratore spento (e chissà se ero autorizzato a riportarne gli ultimi brani), ci siamo bevuti tre birre a testa, formato tedesco. Su Piazza Maggiore, più bella che mai, è scesa la sera. E tardi, conviene accomiatarsi. Ma non ho rimorsi; domani, per la splendida Brunilde, non c’è recita, ma solo riposo: passeggiate e letture in albergo, i suoi svaghi preferiti. Mentre mi avvio verso la stazione dei taxi, dopo saluti affettuosi, sento una voce che dice: “”Allora, quella proposta di matrimonio, è ancora valida?””. Forse è meglio non voltarsi: anche gli scherzi hanno un limite.

Musica Viva, n. 5 – anno XIV

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