Kapellmeistermusik. In questa espressione sembrerebbe essere implicito un senso diminutivo, negativo, se non proprio spregiativo. Mahler, per esempio, si vide affibbiato quell’epiteto per tutta la sua vita, a Vienna e altrove: e col chiaro significato che la sua musica, la musica ch’egli cioè componeva, era una musica eclettica che proveniva direttamente dalle sue esperienze come direttore d’orchestra. Dunque una musica che riecheggiava quella altrui, quasi assimilandola col mestiere del direttore. Oggi naturalmente sappiamo che le cose stanno diversamente, e che Mahler fu un compositore che esercitò anche la professione del direttore d’orchestra: influenzando questa proprio in virtù di quella, e non viceversa. D’altronde anche Bach ai suoi tempi fu rispettato e onorato più per la sua funzione di Kantor– antenato della figura moderna del Kapellmeister, nata nell’Ottocento – che per la musica che scriveva e che in larga misura era connessa con la posizione da lui ricoperta.
L’idea che il creatore nel pieno senso del termine dovesse staccarsi dalle contingenze della pratica esecutiva, demandando alla figura specifica dell’interprete o dell’esecutore il compito della mediazione della sua arte, si sviluppa nell’Ottocento romantico ed è principalmente legata alla nuova religione wagneriana: dove l’obiettiva complessità nella realizzazione delle partiture richiede un responsabile unico sia per la preparazione dell’orchestra che per l’addestramento della compagnia di canto. Si istituzionalizzò così la figura del Kapellmeister, che nei teatri tedeschi venne a poco a poco assumendo anche il ruolo di guida artistica generale, oltre a quella sempre più necessaria di direttore d’orchestra. Non è però un caso che tra i primi a ricoprire queste funzioni fossero un Franz Liszt a Weimar e poi, sempre in rapporto a Wagner, Hans von Bülow: ossia compositori prima ancora che interpreti ed esecutori.
Fino a che la musica è vissuta delle novità del giorno, e anche quando si è creata la nozione di repertorio, il Kapellmeister è stato per sua stessa natura una sorta di creatore e di ricreatore portato per formazione, educazione e cultura a cimentarsi più o meno occasionalmente anche nel campo della composizione. A tanto lo spingeva il suo rango. Ed è significativo che la crescente specializzazione del direttore d’orchestra abbia nel nostro tempo sempre più eroso la componente creativa confinandola in una regione secondaria, guardata con sospetto se non con bonaria comprensione. Ma ancora uno Strauss si fregiava del titolo di Kapellmeister; e Wilhelm Furtwängler o Rafael Kubelik sono stati compositori di tutto rispetto (Kubelik ha addirittura abbandonato la direzione d’orchestra per dedicarsi solo alla composizione). Oggi rimane Bernstein, che è un grandissimo direttore e un grande compositore; ma a nessuno verrebbe in mente di definirlo un Kapellmeister. Anzi, Bernstein è considerato anche un compositore proprio in quanto è un direttore atipico e geniale; mentre il titolo di Kapellmeister contiene un vago sentore di routine, di ripetitivo, di stantio. Il sipario aperto tutte le sere. L’opera come servizio sociale e non come evento. La pianura distesa invece delle cime che danno vertigini. Un’altra civiltà.
Non contenta di aprire il sipario trecentoventi sere all’anno, l’Opera di Stato Bavarese organizza da trent’anni una serie di concerti di musica da camera nel gioiello rococò del Cuvilliés-Theater, affidandone l’esecuzione alle prime parti e ai gruppi strumentali dell’orchestra. E per festeggiare il giubileo ha pensato di dedicare un concerto alle composizioni di autori che hanno ricoperto stabilmente la carica di Kapellmeister e di direttore musicale generale presso l’Opera di Monaco: da colui che fu il primo, Franz Lachner, a quello che ne regge oggi le sorti, Wolfgang Sawallisch; passando attraverso Felix Motti, Bruno Walter, Hans Knappertsbusch e Ferenc Fricsay. Tutti direttori d’orchestra famosi, ma qui in veste di compositori, appunto. L’esperienza è istruttiva, soprattutto per il conto che dà di una civiltà musicale straordinariamente fertile; ma anche perché permette di gettare uno sguardo su gusti e predilezioni di artisti che siamo abituati a giudicare in qualità di interpreti, rivelandone radici e inclinazioni altrimenti insospettabili.
Prendiamo Bruno Walter. La sua Sonata per violino e pianoforte in la maggiore è del 1910 e mostra chiare ascendenze brahmsiane. L’atteggiamento di fondo sembra essere quello di chi si pone al limite estremo di rottura con la tradizione e ne vuol conservare certi valori: la simmetria formale, la varietà espressiva, la limpidezza comunicativa. Contraddetta però da continui slanci melodici, da impennate vorticose che registrano più che realizzare compiutamente l’aspirazione a trasmettere un’inquietudine e un’ansia di rinnovamento intrecciando idee e spunti diversi. Il respiro è caldo, l’eloquenza fluente, la scrittura sicura: accesamente romantico il tono. E vi si scorgono il palpito di Mozart, la tensione continua di Schubert, la vena crepuscolare di Brahms: ma più per associazioni ideali che per riferimenti concreti. Un modo di intendere la musica come cosa viva, come valore eterno, come emozione e rivelazione. Nel segno di una continuità che riconduce anche i turbamenti nell’alveo di una coscienza serena, inflessibile. Dove anche Mahler può essere visto, nella visione dell’interprete, prima che cominci l’incubo e si manifestino i fantasmi, come una memoria di bellezze lontane; ma non per questo distorte.
Il Quartetto per archi n. 1 di Felix Mottl è un capolavoro senz’altri aggettivi, che non sfigurerebbe in nessun concerto e che perciò lascia interdetti di fronte all’interrogativo di quanta musica “”minore”” è rimasta sepolta sotto le ceneri della storia. Ma ciò non sorprende, dato che Mottl era anzitutto un compositore: nel quale la linea che collega Beethoven a Wagner risalta in splendida evidenza, e con tratti personali di folgorante impatto. Sorprende invece trovare nei Quattro Lieder op. 15 di Knappertsbusch (su testi di Uhland e Goethe) ciò che non t’aspetteresti: invece della pesantezza e dell’austera solennità dei suoi inimitabili lunghi tempi, l’aforisma graffiante, l’umore bizzarro, la levità dello scherzo. E riferimenti lontani, apparentemente: la finta ingenuità del canto popolare che scoperchia gli abissi mentre sembra giocare distrattamente, e il gesto stravinskiano, lo sberleffo ingiurioso condito da una smorfia di disgusto. Ma con la consapevolezza che occorre guardare avanti: basta che il livello di questa consapevolezza (1937 è l’anno di composizione) sia posto al di là delle cose, cioè più in alto. Caro, vecchio Knappertsbusch.
Al confronto il frammento (due tempi) del Quartetto per archi (1930) di Ferenc Fricsay è un bagno salutare: Bartok, naturalmente, il modello, ed esibita la fede nella nuova musica che riconcilia colto e popolare. Scrittura incisiva, che brucia le idee come fossero fuscelli di un rito propiziatorio della giovinezza: altri tempi, altre certezze. Un fuoco che non riscalda, ma che dà almeno l’illusione della vampa. Per relazione di idee, il pensiero corre al Don Giovanni di Fricsay, così drammatico, così sfuggente, così tragicamente moderno, ricostruito per frammenti. Popolare e aristocratico insieme. Aristocraticissimo, invece, nella sua ben equilibrata miscela di cordialità e dottrina, il secondo movimento (“”Molto lento, con grande sentimento””: una indicazione che è già un programma) del Quartetto per archi incompiuto che Wolfang Sawallisch prese a scrivere nel 1942 durante la prigionia di guerra in Italia, a diciannove anni. Un pezzo che chiaramente non pretende di essere originale, ma solo di testimoniare l’amore per la musica intesa come quotidiano esercizio dello spirito, tra sogno e realtà. Ciò che Sawallisch, nei nostri tempi oscuri, continua a fare con ostinata caparbietà di Kapellmeister, forse ultimo erede di quella stirpe eletta.
Che tutti questi grandi dominatori di orchestre sterminate, di voci e di apparati teatrali, cercassero nella musica da camera un’oasi in cui ritrovare la pace di un contatto diretto, naturale e spontaneo, con la musica come fatto creativo, è il sintomo inequivocabile di un modo di essere e di sentire il richiamo dell’arte ch’è espressione di una intera civiltà, oltre che di destini individuali: anche la Kapellmeistermusik ha la sua nobile grandezza, quando la più profonda conoscenza della musica s’intreccia, ai gradi più diversi, con l’onesta intenzione di lasciar traccia più intima di sé.
Musica Viva, n. 3 – anno XIV