Raccontare Katja Kabanova, come l’hanno vista e realizzata al Comunale di Firenze un grande regista di cinema (Ermanno Olmi), uno scenografo poeta (Emanuele Luzzati), una costumista di straordinaria simpatia e capacità professionale (Santuzza Calì). Raccontarlo da un punto di vista un po’ speciale, insolito per un recensore, privilegiato e nello stesso tempo limitato, quale è quello di chi abbia partecipato fin dall’inizio alla definizione del lavoro, studiando l’opera, traducendo il testo, riflettendo e vedendo nascere giorno dopo giorno, dall’idea, lo spettacolo nella sua concretezza e interezza. E giusto farlo? E corretto parlarne? E’ possibile riferirne spassionatamente, quando si è stati coinvolti, sia pure operativamente in minima parte, nello sforzo di far rivivere sulla scena qualcosa che si ama e che si vorrebbe fosse amato e capito da tutti attraverso i nostri occhi, il nostro modo di sentire?
Katja, dunque, Janàček. Un’opera desolata, ma insieme fiera e orgogliosa, del Novecento. Alla radice un testo di forte critica sociale, L ‘uragano di Ostrovskij, aspro e crudele, tagliente ed esilarante nel dramma come solo i russi dell’Ottocento sapevano essere; ma ridotto, sfoltito da Janàček in tragedia individuale ed universale, amplificata nelle dimensioni sinfoniche della musica. Olmi, all’inizio, è deluso da questa riduzione: da uomo di cinema, vede lucidamente i difetti della sceneggiatura. Poi ascolta, ascolta e riascolta la musica, si immerge nel canto, si abbandona alle cadenze delle passioni, scopre le necessità della drammaturgia musicale: si emoziona. Ed è bello vedere come la potenza della musica sia capace di questa trasfigurazione, e metta in moto vertiginosamente associazioni mentali da cui nasce l’idea dello spettacolo.
C’è una scena, nel primo quadro del terzo atto, che rappresenta le rovine di un antico palazzo, attraverso cui per così dire è passata la storia: uno sguardo sull’ignoto della fantasia nella cittadina di provincia da sempre uguale a se stessa e alla trasgressione. Tra quelle rovine, che recano ancora le tracce di splendori passati e di eterne miserie, si ritrovano a fantasticare (o a reprimere) tutti i personaggi durante l’uragano, prima dell’epilogo tragico. E questo nodo drammaturgico con la sua simbologia implicita ad attirare la fantasia di Olmi. E prende corpo così la visione della scena: le rovine del palazzo, che Luzzati disegna intrecciando stili architettonici e figurativi di epoche diverse, quasi stratificate, incorniciano il luogo dell’azione, che sarà improntato invece a un naturalismo curato fin nei minimi dettagli; con scorci di boschi, vedute di paesaggi, interni d’epoca, costumi ottocenteschi che distinguono l’ambiente e le classi sociali, e luci soffuse, delicatamente avvolgenti, di tono crepuscolare e notturno, insieme realistiche e psicologiche. Tutta l’azione si svolge in questo spazio, racchiuso in quella cornice: senza sipario e senza interruzione, giacché a Olmi pare necessario – come sembra paresse in origine anche a Janàček – rappresentare l’opera tutta di seguito, concentrando i tre atti in un unico, grande, arco conchiuso in se stesso, dove l’ascoltatore rimanga imprigionato per liberarsi solo a eventi compiuti.
In questo quadro realistico che sfuma impercettibilmente in una cornice astratta ma a sua volta sovraccarica di immagini figurative (proiezione delle volte e dei dipinti di un palazzo in rovina), Olmi inserisce un ulteriore elemento di oggettivazione: un narratore, ch’egli immagina sopravvissuto all’uragano e che ritroviamo in scena nel penultimo quadro, espone e commenta prima di ogni atto ciò che lo spettatore vedrà poi compiersi nel dramma; riassumendo i fatti, ma come se essi riemergessero da un lontano, labile ricordo. E il punto più controverso, forse irrisolto, di questa messinscena; anche perché esclude, per conseguente scelta, l’impiego delle proiezioni delle didascalie in italiano (i cosiddetti sopratitoli) che di solito accompagnano al Comunale di Firenze le rappresentazioni di opere in lingua straniera (l’opera si dava infatti nell’originale ceco). E’ curioso che proprio Olmi abbia rifiutato questo sussidio visivo che sarebbe stato di grande utilità soprattutto per apprezzare, in rapporto al testo, le finezze di una recitazione meticolosamente studiata sulla parola, sul gesto, sull’espressione. Ma se da questo punto di vista l’espediente del narratore si rivela un insufficiente surrogato, nelle intenzioni esso doveva avere un’altra funzione: spingere l’ascoltatore a ricercare per così dire un terzo livello di lettura nella forza rappresentativa della musica, al di là tanto del quadro (che riproduce la vicenda passionale di un banale triangolo adulterino in modo esasperatamente realistico) quanto della cornice (che invece lo universalizzava in pulsioni, sentimenti e aspirazioni di ben diverso peso, quasi fino a espungerli dal contesto).
E non solo nella musica. Adottando una tecnica cinematografica (è inevitabile che ognuno porti con sé il proprio mondo di esperienze), Olmi concepisce la sua regia come una lenta progressione o “”zoom”” da campi lunghi a primi piani; collocando idealmente la macchina da presa nell’occhio dello spettatore. E ciò vale a decidere per la disposizione dei personaggi, inquadrati e fatti muovere in base al loro rango e al loro ruolo nella vicenda: l’altera e sprezzante Kabanicha, l’irascibile mercante Dikoj, il fragile marito tradito, l’incosciente e sfuggente amante, l’infantile Varvara, lo spensierato Kudriasch; con Katja al centro, in un ambiente chiuso; spinta però ad evadere, con l’illusione e il sogno più che con la speranza. Ma ciò vale anche per il paesaggio, per il luogo dell’azione. Sfruttando in maniera intelligente lo spazio scenico, Olmi può ottenere ad ogni atto, ad ogni quadro, un lento approssimarsi della scena, del luogo dell’azione verso il proscenio: per restringerla, fino a farla coincidere quasi con la platea. Così il Volga, invocato come luogo di meraviglia all’inizio, si trova dapprima sullo sfondo; ma come se la scena ruotasse via via che l’azione procede, alla fine, quando il fiume diviene il luogo del suicidio di Katja, noi lo vediamo in primo piano sul davanti, prolungato verso la platea. E in un primo piano (o in un piano sequenza ravvicinato) si concentra l’epilogo; mentre il campo visivo stesso si restringe e sembra voler uscire dal quadro, per schiacciarci, collocandoci nel luogo dell’espiazione e della morte.
E forse inconsciamente lo spettatore sente in questa progressiva sottrazione di spazio vitale la parabola del dramma di Katja, un dramma che a poco a poco penetra in lui e lo coinvolge quasi facendogli franare addosso la realtà calligrafica della finzione teatrale, che diviene così verità; o dubbio, interrogativo che ci riguarda tutti.
E raro trovare nell’uso del palcoscenico, dalla cornice al singolo arredo, o nella recitazione armonizzata sulla differenziazione delle figure, o ancora nel percettibile trasformarsi della scena secondo un’idea drammaturgica o un fine interpretativo, la chiave di lettura, coerente e meditata, di uno spettacolo. Non so se questo basti sempre a fare anche un grande spettacolo.
Qui non posso giudicare. Ma uno spettacolo che avesse un senso, che fosse stato pensato e sviluppato in base a un’idea, forse più sulla spinta dell’emozione che di un razionale sapere, ecco, questa Katja Kabanova lo era. E non solo grazie ai musicisti, al direttore Christian Thielemann e ai cantanti, ma soprattutto per merito di uomini e artisti non specificamente legati dl teatro d’opera, ma che del teatro d’opera e della sfida hanno fatto, per un mese passato assieme, una ragione di vita.
Teodoro Celli è morto; e se dei morti si dice che hanno smesso d’essere vecchi per entrare nel senza-tempo, mi pare d’avere capito che a lui sarebbe piaciuto essere ricordato invece proprio come vecchio, un vecchio che aveva del passato tutta una sensibilità da testimone. “”Lei non potrà mai capire, temo, che cosa voglia dire per un appassionato di musica, per uno che deve aspettarsi qualcosa dai direttori, avere ascoltato De Sabata nella giovinezza””. E anche: “”Mi dispiace per voi, ma io ho fatto ancora a tempo a vivere, di Wagner, la stagione in Italia della grande scoperta, la passione travolgente, poi la messa in discussione, e il suo ritorno trionfale. Wagner, capisce? Wagner””.
Teodoro Celli però non era vecchio, era invece un signore d’altri tempi, con le cocciutissime ostinazioni e con la sua voglia di capire, al di là della musica e delle teorie musicali, le persone. Capì la Callas, e ne parlò memorabilmente come artista; capì anche che la qualità per capire gli artisti era scrivere da artista, allo scoperto, passioni dell’immagine. Polemico, tumultuoso, anche lontano, Teodoro Celli era una delle persone che fanno amare di più la musica. Per un critico musicale e uno scrittore di libri sulla musica, è una qualità meravigliosa.
Musica Viva, n. 1 – anno XIV