Salisburgo: Fischer-Dieskau, Brendel, Pollini

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Dietrich Fischer-Dieskau che canta la Winterreise di Schubert accompagnato al pianoforte da Alfred Brendel. Maurizio Pollini che ripete uno dei suoi programmi più famosi, di cui ha ormai il brevetto, quello delle dissolvenze incrociate tra arte e storia, tra inizio e fine di epoche della musica (l’ultimo Brahms, l’opera 19 di Schönberg, lo Stockhausen giovane; e poi la valanga della 106 di Beethoven). Che ciò avvenga una sera di seguito all’altra a Salisburgo è uno di quei fatti che rende questo festival ancora unico al mondo (almeno nei concerti; non più, quest’anno, per le rappresentazioni d’opera). Fischer-Dieskau e Brendel avevano fatto lo stesso concerto alla “”Schubertiade”” di Hohenems, un festival di cui prima o poi bisognerà parlare; Pollini una prova generale a Pesaro, un festival di cui a ragione si parla già molto. Ma a Salisburgo i due programmi e i tre interpreti si ritrovavano a stretto contatto sulla stessa strada: si potrebbe dire sulla stessa rotta di viaggio. Non è però solo questo il fatto di cui vogliamo riferire.

Il pubblico di Salisburgo è come tutti sanno un pubblico speciale, insieme anonimo e distinto. Ama i grandi interpreti più della musica; o meglio ama la musica in quanto eseguita dai grandi interpreti (oggi forse non tutti quelli che passano per Salisburgo lo sono veramente; ma l’importante è mettersi in quest’ ordine di idee). A Salisburgo l’evento è tradizione; e perciò non viene neppure troppo reclamizzato, è già implicitamente realtà. Il modo in cui questo pubblico saluta e accoglie Fischer-Dieskau, che non solo qui è ormai una parte di storia, e Brendel, che è la civiltà pianistica fatta persona, non lascia adito a dubbi: da loro ci si aspetta la conferma di ciò che si sa già; al massimo livello, va da sé, ma in modo scontato, solido e tranquillo. Anche le emozioni sono già programmate. Tutto rientra in un rito accettato, come vestirsi a festa e prenotare un tavolo in un buon ristorante per il dopo concerto. In fin dei conti Salisburgo è una vacanza musicale, per chi se lo può permettere. E nel prezzo del biglietto sono già compresi, comunque, la partecipazione e il successo.

Solo che dall’altra parte ci sono gli interpreti; e per loro, quando sono autentici, ciò che conta è la musica, il confronto e la ricerca sulla musica: anche quando il programma è già ampiamente collaudato. Anzi, soprattutto in questi casi Salisburgo sembra costituire per essi una prova della verità. Ma accade che la verità dell’interprete e quella del pubblico non coincidano. Perché la verità dell’interprete è il contrario della verità del pubblico; non è l’aspettativa di una serata di emozioni che scattano al momento previsto, con giusta dose di commozione: è il dubbio, la sfida, il coraggio di rimettere tutto in discussione e di gettarsi in un’avventura di cui non si conosce il punto di arrivo e che non dà la certezza di una consolazione, neppure raggiunta per mezzo dell’arte. E non è neppure la richiesta dimostrazione della propria bravura tecnica, della propria grandezza di esecutori. E invece sorpresa, illuminazione, sofferenza, forse sgomento: qualcosa di grottesco, quando si realizzi in una sala gremita di migliaia di persone molte delle quali non sono preparate a ricevere ciò che le attende. Uno sforzo sovrumano per uomini che tutt’al più riusciranno a interrogarsi o a immedesimarsi nella visione dell’interprete, ma che ad essa rimarranno comunque estranei, fisicamente lontani, per quanto si impegnino a condividerla, e poi ad acclamarla.

Quante volte Fischer-Dieskau avrà cantato il Viaggio d’inverno? Ecco, ora lo rifà. Il Viaggio d’inverno di Fischer-Dieskau, non si dice così? Come se fosse la prima volta, naturalmente. Ma l’impressione un po’ inquietante è che si tratti di un’ultima volta. Dopo che Brendel ha esposto il preludio di “”Gute Nacht””, stranamente indugiante, attacca la voce, incrinandosi leggermente. Un pensiero percorre la sala come un lampo: eh già, gli anni passano per tutti. E invece quell’incrinatura è l’espressione di un calcolo supremo che si scioglie nell’evidenza della verità: si assottiglia già nel primo ritornello, si sdoppia nei semitoni della figura del dolore, si rianima negli slanci melodici, si rafforza nel congedo, si affida all’ineluttabile movimento del ritmo di marcia. E la crepa dell’anima che nel corso del ciclo diviene abisso: di disperazione, di sarcasmo, di autocommiserazione, di vertigine, di rinuncia, di abbandono. E la prefigurazione del nulla dell’ultimo dialogo tra voce e pianoforte nel sonatore di organetto, sussurrato come una antica preghiera senza fede, senza conforto. O con tutta la fede e il conforto di cui può essere capace una mente e un cuore umano. Si capisce l’emozione che deve aver dato a Fischer-Dieskau e Brendel ristudiare da capo insieme l’opera, soffermandosi ad una ad una sulle sue sfumature: quella dev’essere stata la vera gioia. La prestazione che segue è solo dimostrazione, sfida. Dopo, tutto scompare nel confronto con la pagina eseguita, nella capacità di essere solo la voce e il pianoforte di Schubert; viandanti in un mondo di gelo. Giacché quando raggiunge questa verità l’interprete si annulla nella personalità dell’autore, e diviene l’effetto di una causa che lo trascende e lo trasfigura; sino a fare di ogni particolare una totalità, e della totalità un particolare sfuggente. Pollini, poi. La sua sfida è più dichiarata, già nel programma. Il giorno del concerto si trova ancora qualche biglietto, ed è un indizio chiaro da queste parti, al culmine del festival. E incredibile l’ottusità con cui il pubblico nella prima metà del programma, appena svanite le ombre malinconiche di Brahms (ed è un presagio che solo dopo si svelerà, ma che proviene da Schubert), reagisce all’impatto con la musica più nuova: e se negli aforismi screziati di Schfede, senza conforto. O con tutta la fede e il conforto di cui può essere capace una mente e un cuore umano. Si capisce l’emozione che deve aver dato a Fischer-Dieskau e Brendel ristudiare da capo insieme l’opera, soffermandosi ad una ad una sulle sue sfumature: quella dev’essere stata la vera gioia. La prestazione che segue è solo dimostrazione, sfida. Dopo, tutto scompare nel confronto con la pagina eseguita, nella capacità di essere solo la voce e il pianoforte di Schubert; viandanti in un mondo di gelo. Giacché quando raggiunge questa verità l’interprete si annulla nella personalità dell’autore, e di-viene l’effetto di una causa che lo trascende e lo trasfigura; sino a fare di ogni particolare una totalità, e della totalità un particolare sfuggente. Pollini, poi. La sua sfida è più dichiarata, già nel programma. Il giorno del concerto si trova ancora qualche biglietto, ed è un indizio chiaro da queste parti, al culmine del festival. E incredibile l’ottusità con cui il pubblico nella prima metà del programma, appena svanite le ombre malinconiche di Brahms (ed è un presagio che solo dopo si svelerà, ma che proviene da Schubert), reagisce all’impatto con la musica più nuova: e se negli aforismi screziati di Schönberg  (ma come non accorgersi che in quei diamanti si concentra tutta la luce e il riflesso di un’idea della storia del pianoforte?) c’è troppo poco tempo per risentirsi (eppure quel tempo breve appare un attimo infinito, di eterna attesa), nei pezzi di Stockhausen, soprattutto nel leggendario nono Klavierstück, il disagio si fa manifesto, palpabile. I colpi di tosse, i movimenti rumorosi fanno volontariamente eco alla musica: Pollini lo avverte, e raddoppia gli sforzi in una tensione inaudita. Ora la sfida è aperta: dal pianoforte getta sguardi pieni di orgoglio al pubblico, intensifica le pause, dosa i pianissimi al limite dell’udibile, manovra dure schegge di esplosioni formali. Tutto si fa chiaro. Anche questo: è falso che questo pubblico non capisca questa musica. Ha capito tutto fin troppo bene. Non è l’avventura ciò che esso cerca; ma ne rimane suo malgrado coinvolto. Per Pollini l’avventura è invece come il soffio liberatore dell’arte: la spinta che aiuta a scalare in solitudine la montagna dello spirito. E il viaggio continua, con singolare speculazione, nella 106, che ora non risuona più come il trionfo di un’epoca di fermenti e di grande espansione ma piuttosto come il colosso di un universo sonoro nel quale il gesto monumentale maschera l’oscura percezione del caos. Nel’””Adagio sostenuto, appassionato e con molto sentimento”” la cantabilità non è più fenomeno magniloquente di un atteggiamento iperespressivo, ma astrazione, essenza, estasi, forma pura; nella fuga finale, che Pollini incalza quasi volesse disgregarne dall’interno il meccanismo artificiale, l’ascesa si compie lungo un percorso impervio di costruzione architettonica sviluppata fino al punto di non ritorno: e lì appare, al vertice, assoluto, il nimbo metafisico di Beethoven.

Come applaude ora il pubblico! Ma l’impressione è che cerchi così di scaricare la tensione e il disagio, di riconquistare la superficie. Il bel rito, forse, è stato profanato. Poco importa che Pollini l’abbia invece officiato anche con una perfezione tecnica e un calore strumentale che travolgono i sensi. Quando attaccai bis, non più di un terzo della sala è rimasto al suo posto. In costoro, involontariamente, riconosciamo ora dei compagni di viaggio.

Il fatto? Esperienze come queste non lasciano più le cose com’erano prima: acuiscono un senso di ansia, di inadeguatezza, quasi di frustrazione. E come essere messi di fronte a mondi che mai verranno posseduti. E nello stesso tempo ogni particolare, ogni accento, ogni vibrazione si fissa indelebilmente nella coscienza, e comincia ad agire. Questi momenti riempiranno nel ricordo la vita: ed è per questo che l’arte ha un valore. Il cono d’ombra si proietta fino a incontrare la luce. La felicità, forse, è nel saper cogliere quel confine. Ma intanto vorresti rimanere lì per sempre; oppure metterti subito in cammino, fuggire, essere lontano, dimenticare, cercare protezione: essere solo con te stesso, anche se sarà dura. E invece, quelle sere, quanti avranno disdetto il ristorante e si saranno sentiti ridicoli nell’abito della festa?


Musica Viva, n. 10 – anno XIII

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