Il Falstaff di Verdi prodotto dalla Welsh National Opera di Cardiff e ospitato dalla Scala al Lirico per tre recite assai applaudite aveva il suo punto di forza nella regia di Peter Stein. Stein è un grande regista di prosa, secondo me uno dei più grandi in assoluto: non ho mai rimpianto la fatica e i soldi spesi per andare a vedere i suoi spettacoli alla Schaubiihne di Berlino. Al teatro d’opera Stein si è accostato solo di recente, e a condizioni precise, che di fatto escludono la sua presenza nei grandi teatri del mondo, che pure lo hanno molto corteggiato: tempi di prova lunghissimi (non meno di due mesi) con artisti stabili preferibilmente giovani e disposti ad assecondarlo in ogni richiesta. Dopo un aborto di regia dell’Oro del Reno a Parigi, che Stein affrontò anzitutto per rimuovere il complesso edipico verso Wagner che contraddistingue molti artisti tedeschi della sua generazione, è venuta la collaborazione nel nome di Verdi con l’Opera Nazionale del Galles, orgogliosamente pronta a offrire, nei limiti consentiti da un teatro di provincia, le condizioni di lavoro richieste: prima un Otello barbarico e povero (che vidi a Bruxelles e che francamente deluse per la sua anodina convenzionalità); e ora questo Falstaff importato a Milano dopo una lunga serie di recite in patria e una discussa tournée in America.
E probabile che il successo perfino clamoroso arriso a questo allestimento del Falstaff intendesse premiare anzitutto un modo di fare teatro per noi inconsueto e sorprendente: tanto spontaneo e immediato quanto curato e rifinito fin nei dettagli minimi della recitazione. Che un pubblico come quello milanese, abituato a prender cappello per un acuto mal riuscito o una stecca, abbia non solo sopportato ma anche apprezzato una concertazione rozza e approssimativa (che cosa accadrebbe se Richard Armstrong dirigesse un’opera alla Scala?), un’orchestra fallace e sciatta e soprattutto una volonterosa compagnia di canto che aveva nella simpatia e nell’omogeneità a medi livelli il suo pregio maggiore, può stupire ma in fondo non dispiace, se è un segno di maturità e di civiltà, oltre che di rispetto per il lavoro altrui: qui teso al massimo dell’impegno e della concentrazione con risorse volutamente limitate. Nessun teatro di provincia italiano sarebbe capace di tanta vivacità, spigliatezza e disinvoltura nel realizzare, facendola sentire come cosa viva e vitale, una partitura anche meno complessa di quella del Falstaff; forse anche perché nessuno si sognerebbe da noi di prendersi quelle licenze nel cantare e fraseggiare, alterando ritmi e altezze, che i gallesi apertamente ammettevano, con una naturalezza e una consapevolezza talmente disarmanti da indurre a credere, talvolta, che fossimo noi, nell’accorgercene, i pedanti.
Naturalmente tutto ciò non sarebbe stato accettabile senza la personalità carismatica di Peter Stein. Ogni particolare anche musicale esisteva in funzione della sua regia: dalla scelta dei cantanti (tutti del luogo, salvo la Focile) al modo in cui essi venivano impiegati e mossi sulla scena, individualmente e coralmente. Eppure, nonostante il meccanismo perfettamente oliato dell’azione, l’ammirevole recitazione, la coerenza dell’insieme, ciò che lasciava perplessi era proprio l’idea che Stein ha del Falstaff: una commedia farsesca dai toni animatamente accesi e quasi frenetici, evidentemente riplasmata più sul modello del teatro di Shakespeare che su quello di Boito e Verdi. Non che Stein non rispetti per esempio le indicazioni registiche del testo; anzi: un tratto tipico del suo lavoro è proprio l’assoluta fedeltà ai testi che affronta, fin nei dettagli delle didascalie, dei quadri, dell’impianto scenico (qui ridotto al minimo per motivi pratici, ma assai ingegnoso e funzionale nell’impiego degli spazi, suggestivamente colorati e climatizzati con effetti di luce portentosi nella loro semplicità). L’interpretazione che Stein ne dà è però univocamente indirizzata a sottolineare l’aspetto comico delle situazioni e a risolverle in chiave di sorridente divertimento, di allegra farsa: dove tutti sembrano partecipare al gioco sapendo già come andrà a finire. Con un’eccitazione che impone ritmi teatrali di rapinosa mobilità, ma per così dire scivolando sulla musica senza agganciarsi ai suoi tempi e alla sua carica fantastica. Una lettura di questo genere non è in via di principio illegittima. Ma Stein sembra mancare l’appuntamento con alcuni nodi cruciali dell’azioie e trattenersi dall’approfonire temi e personaggi com’è solito fare nelle sue regie di prosa. La figura di Falstaff, anzitutto. Donald Maxwell, buon cantante e ottimo attore, regge adeguatamente il peso della caricatura e dell’enorme pancione; ma perde la nobiltà e la lucidità, in molti punti più che aristocraticamente raffinata, della sua parte e del suo personaggio. Falstaff è un grande seduttore che, giunto al crepuscolo della sua vita erotica, non vuole rinunciare alla chimera di qualche avventura rubata al tempo, ben sapendo che così rischia di esporsi al ridicolo e alla beffa. Senza arrivare ad affermare che sia anche una figura in qualche misura tragica, partendo dalla musica si può tuttavia scorgere in lui un lato umano di ambigua grandezza e uno spessore psicologico sottilmente inquietante, come per esempio aveva ben saputo individuare Strehler; una malinconia del congedo che si riverbera a tratti su tutto il mando che lo circonda, rendendo instabile l’equilibrio della commedia. Solo nell’ultimo atto Stein sembra accorgersene, nell’incantata atmosfera notturna della fiabesca conclusione; ma la soluzione che egli adotta – sgombrare la scena per mostrarne l’irrealtà e issare Falstaff in cielo come un deus ex machina dell’azione già smascherata – è un bellissimo colpo ad effetto che assicura una fine conciliante e allieta, facendoci uscire di teatro con l’impressione di avere assistito a una recita in cui niente va preso sul serio. Pura finzione e divertimento puro. E sia. Ma è tutto qui il senso del Falstaff? Solo questo significa che “”tutto nel mondo è burla””?
Può darsi che Stein sia stato condizionato nella sua visione dell’opera dai mezzi stessi e dai fini con i quali e per i quali ha lavorato. E ne ha ricavato risultati straordinari, sul piano dell’evidenza, nella realizzazione teatrale. Certi eccessi realistici (una gestualità fin troppo esibita: ogni scoppio d’ira qualcosa da sfasciare; ogni frase musicale raddoppiata da mosse e accenni con le mani; senza contare il consueto logoro campionario delle corna, del vino che scorre a fiumi, dei palpeggiamenti e delle riverenze, a mimare sulla scena ciò che dicono già le parole e che la musica oltretutto ridefinisce) si possono spiegare benissimo pensando al pubblico cui lo spettacolo era originariamente destinato: un pubblico che del testo italiano (e delle finezze di Boito, tra modi di dire e doppi sensi) non poteva capire granché. Non così noi. All’ammirazione per la scioltezza e la naturalezza dell’insieme mancavano l’adesione completa e l’abbandono che ci attendiamo quando vediamo Falstaff (senza dovere, ascoltandolo, immaginarcelo diverso). Ma qui forse si aprirebbe un altro discorso: l’idea che i registi di prosa, anche quelli geniali e profondi come Stein, hanno del teatro d’opera. E qui allora anche un’esperienza come quella di questo Falstaff diviene interessante e istruttiva: proprio perché proviene da un grande e serio artista, non abituato però a sentire la musica nella totalità del suo linguaggio e delle sue forme, pur amandola e rispettandola.
Musica Viva, n. 7 – anno XIII