Ciak, si canta

C

Il cinema entra prepotentemente in teatro: un’intuizione inutile, un conflitto di codici, una possibilità affascinante, un incontro felice?

Era inevitabile che il film entrasse negli spettacoli d’opera, dopo i registi di cinema, le proiezioni, gli effetti multimediali. Inevitabile data la tendenza o passione predominante a concepire anche la regia lirica come fenomeno d’attualità. E se in una prima fase l’attualizzazione si indirizzava ai contenuti (con spostamenti d’epoche, riscritture dei libretti, ambientazioni reinventate), ora è venuto il turno dello sfruttamento dei mezzi e delle tecnologie più moderne o nuove, e dunque dell’intervento sulle forme della comunicazione. Con una puntualità e una esemplarità da trattato di sociologia contemporanea.

Forse, prima di tutto, bisognerebbe ripensare a fondo – cosa che la nostra rivista ha già cominciato a fare – che cosa significhi per noi oggi lo spettacolo d’opera e quale sia, per parlar moderno, il nostro “”orizzonte d’attesa””, soprattutto nei confronti del repertorio lirico (diciamo da Mozart a Wagner, o giù di lì): belcanto o dramma, tradizione o attualità, museo o campo aperto alle sperimentazioni più diverse? Detto questo – ma il discorso sarebbe lungo, infinito – bisognerebbe scendere più nello specifico e riassumere – e anche questo la nostra rivista ha fatto, con ampiezza e costanza – i punti cruciali della questione connessa ai rapporti fra opera e cinema, opera e televisione: e cioè che cosa accada quando l’opera viene vista e fatta per il cinema, o per la televisione. Fra tanti dubbi ci sembrò, allora, di avere intravisto una certezza: ossia che l’opera per il cinema o per la televisione (il film d’opera, da Losey a Zeffirelli a Bergman) è cosa profondamente diversa dall’opera in teatro, e tanto più sarà riuscita e artisticamente valida e giustificata (giacché il fine giustifica i mezzi) quanto più si immedesimerà nelle forme dell’espressione cinematografica, nel suo proprio linguaggio (giacché i mezzi giustificano il fine: anzi lo determinano).

Qui però il nocciolo è un altro. E non vuol rifarsi a ragionamenti astratti ma a esperienze concrete. In due fra i più importanti spettacoli inaugurali di questa stagione – La Walkiria di Bologna e il Guglielmo Tell della Scala – il cinema è entrato a far parte integrante dello spettacolo d’opera. Due registi di tendenze diverse – Pier’Alli e Luca Ronconi – hanno impiegato una proiezione cinematografica abbastanza estesa e continuata durante il corso dell’opera, in teatro, per interpretare e caratterizzare il loro lavoro, illustrare la rappresentazione; alternandola o abbinandola all’azione che avveniva sulla scena. Con quali intenti? Abbastanza diversi, se non diametralmente opposti: anche perché diverse erano le opere con cui avevano a che fare.

Grossomodo, con il ricorso al film, Pier’Alli ha voluto spiegare e rendere esplicito (talvolta naturalisticamente, talvolta simbolicamente) ciò che non è visibile sulla scena. La Walkiria, come si sa, è piena di racconti, ricordi, rievocazioni, anticipazioni di eventi successivi, visioni e sogni. Ed è, sicuramente, pregna di simboli. Ma gli uni e gli altri Wagner ha affidati alla trama assai complessa del tessuto orchestrale e dell’elaborazione tematica, proprio perché voleva che lì rimanessero e agissero, anche drammaturgicamente: non per caso egli parlava di un dramma reso visibile dalla musica, concentrato sulla scena e, semmai, amplificato dalla recitazione dei cantanti. Un film che descriva ciò che avviene altrove, e con ben altra densità di significati, è solo un mezzo didascalico per semplificare le cose, assottigliarne lo spessore, illudendoci di farci capire. Un mezzo per di più improprio, se unito alla rappresentazione teatrale.

Alla Scala, invece, Ronconi, proiettando su vari schermi spezzoni ripetitivi di pellicola, vorrebbe semplicemente evocare l’ambiente e il paesaggio in cui si svolge la vicenda del Tell, la Svizzera favolosa con i suoi laghi, boschi e cieli. L’idea è di animare questo sfondo sino a farlo partecipare all’azione, e far vibrare nelle immagini che scorrono, quasi rispecchiandoli, i sentimenti dei personaggi. Perché non ha funzionato questa idea, in sé, sulla carta, quasi allettante? Il fatto è che nel Tell la natura è un paesaggio idealizzato, romanticamente evocato, illusorio e fantastico, ricreato e riempito dal canto e dalla musica, e da essi definito e realizzato. Ossia qualcos’altro da quello che il film di Ronconi ci mostrava, nel suo realismo da documentario estraneo allo svolgersi dell’azione e perciò stridente con essa. Col risultato di allontanare sempre più i mezzi del teatro, ridotti a mera parvenza, da quelli del cinema alienati da se stessi.

E possibile dedurre da queste prove un giudizio negativo sull’integrazione di cinema e teatro nello spettacolo d’opera o si è trattato solo di due esperimenti discutibili che non escludono una futura conciliazione? Se vivessimo in tempi chiari e distinti, verrebbe facile la risposta: il cinema è cinema, il teatro è teatro, e ognuno basti a se stesso, e così sia. Ma poiché non è precisamente questo il caso, e c’è da aspettarsi che la novità si diffonda, magari con la condiscendenza dei più, sarà più utile lasciare l’interrogativo aperto e chiudere con qualche istruzione per l’uso: non sovrapporre mai i tempi, gli spazi, il linguaggio del cinema alle forme e ai contenuti dell’opera, massime quando essi hanno una loro ben precisa autonomia e consistenza; non voler spiegare con mezzi impropri ciò che il teatro ha sempre benissimo rappresentato da sé; ricordare che il teatro è evento vivo, diretto, sempre mutabile, mentre il film è un prodotto finito, con ritmi immodificabili; pensare, talvolta, alla musica, ai cantanti, all’azione che si svolge sulla scena, farli sentire attivi, presenti, e non solo ostacoli alla visione di una pellicola che, chissà perché, si proietta proprio lì in contemporanea. Può bastare? Controindicato dovrebbe essere che a occuparsi di queste innovazioni siano registi di teatro, veri o presunti, che non hanno mai avuto a che fare col cinema professionalmente: per evitare che a guasto si unisca guasto.

Se per tal cura i mali dell’opera dovessero aggravarsi, consultare un medico, prima che sia troppo tardi. E che del funerale, poi, non si faccia un film, e se possibile neppure la diretta televisiva.


Musica Viva, n. 4 – anno XIII

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