Bologna: Un ballo in maschera

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Per preparare e dirigere Un ballo in maschera a Bologna Gustav Kuhn ha addirittura rinunciato ad alcune recite già fissate di Intermezzo di Strauss a Monaco: segno di quanto tenesse a quest’incontro con l’opera italiana (non nuova per lui) e con Pavarotti. E il fatto che il Luciano mondiale, accolto a Bologna come un re (Gustavo III di Svezia, nell’edizione incensurata che vi si rappresentava, com’è ormai di moda), si sia profuso pubblicamente in elogi del direttore, sembra avergli dato ragione, e dell’oro e un grado, come al caro Silvano (pardon, Cristiano) Uffiziale dell’ antro di Ulrica. Ossia un’investitura.

Kuhn è potenzialmente il più dotato fra i direttori della sua generazione ma, avendo un temperamento incostante (e qui magari sta anche il suo bello), è capace di alternare, soprattutto in Italia, prove assai convincenti (massime nel repertorio tedesco, che è poi il suo) ad altre un tantino deludenti, e, per chi lo conosca bene e sappia quanto vale, perfino irritanti. La zampata del leone di razza c’è sempre; non sempre, invece la cura dei particolari, il lavoro in profondità, la riflessione stilistica. Di cui sarebbe capace, sia nella concertazione che nell’interpretazione, sempre, e con qualunque opera, almeno da Verdi in poi.

Fosse perché ci teneva in modo particolare, o perché Un ballo in maschera è un’opera che gli è congeniale, Kuhn a Bologna ha lavorato molto seriamente, con ottimi risultati sull’ orchestra e con apprezzabili idee interpretative, soprattutto nei punti di più alta concentrazione drammatica; senza ostacolare le legittime aspettative dei cantanti, ma anche senza rinunciare a trovare un punto d’incontro fra le esigenze del palcoscenico e della buca. Kuhn infatti non è costituzionalmente direttore che si limiti ad accompagnare, ed ha momenti estrosi, quasi imprevedibili, che il suo gesto, tecnicamente impeccabile, comunica prontamente all’orchestra; ma questa volta il tutto aveva l’aria di essere stato giudiziosamente provato, sicché l’insieme – a parte qualche forzatura degli ottoni, diciamo “”alla tedesca”” – funzionava con bella sicurezza, e rendeva piena giustizia al valore, sempre più impressionante ogniqualvolta lo si riascolti, del capolavoro.

Del Ballo in maschera di Luciano Pavarotti non c’è cosa che non si sappia già: egli è Riccardo (o Gustavo che dir si voglia), e tanto basti. Ossia, per credibilità scenica, intelligenza interpretativa, smalto vocale, la perfezione assoluta. E se magari in qualche punto può sorgere il dubbio che, più che cantare il Ballo in maschera, egli ripeta ormai Pavarotti-che-fa-il-Ballo in maschera, basta ascoltare a una replica il pur volonterosissimo Taro Ichihara per capire la differenza. La sua presenza è talmente incommensurabile che per assurdo non nuoce nemmeno ai colleghi, anzi li esalta: così fu anche a Bologna per il solido, ammirevole professionismo di Maria Chiara e per la nobile, espressiva freschezza di Paolo Coni, un cantante maturato e di sicuro avvenire (come al contrario deplorevole apparve invece alla replica la trucibalda incontinenza del Renato di Wolfgang Brendel, tristemente irriconoscibile in questa parte). E poi: Patrizia Pace è nel ruolo di Oscar per così dire un piccolo Pavarotti, e la stessa Viorica Cortez sembrava accettare la sfida dell’evidenza con generosa baldanza, come Ulrica.

L’allestimento proveniva dall’Opera di San Francisco ed era chiaramente stato pensato per Pavarotti, oltreché per gli americani. Di primo acchito, lasciava un po’ interdetti il fatto che dopo aver spostato l’azione a Stoccolma e dintorni alla fine del XVIII secolo si ricreassero con le scene gli ambienti di Boston e dintorni alla fine del XVII secolo, come nella versione più ovvia dell’opera. Ma ciò non disturbava affatto. Disturbava, semmai, ad apertura di sipario, quell’udienza mattutina ospitata direttamente in camera da letto, neanche Gustavo III fosse un nipotino del Duca di Mantova. Ma, ambienti a parte, Sonja Frisell governava la regia con mano esperta e discreta; anche se sembrava più attenta a creare bei quadri visivi che non ad approfondire la recitazione dei personaggi e la drammaturgia raffinatissima del testo verdiano.

Con Pavarotti fiore all’occhiello, il Teatro Comunale di Bologna ha confermato con questo spettacolo di essere in piena salute e di aver consolidato la propria fisionomia: prima era cresciuta l’orchestra, ora è migliorato anche il coro; la scelta dei comprimari, spia sottilissima del funzionamento di un teatro, risultava saggia e oculata; la risposta del pubblico, consapevole e calorosa. E Un ballo in maschera è sotto ogni riguardo attendibilissimo banco di prova. Insomma, questo teatro forse non è ancora da scudetto, ma da zona UEFA senz’altro sì. Tranquillamente.

Musica Viva, n. 4 – anno XIII 

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