Il Cantico del Creatore

I

Dalla voce della natura le note senza tempo di Olivier Messiaen

Quello che leggerete fra poco non è il resoconto di un’intervista. Non lo è nel senso che non corrisponde alle parole riportate da un registratore, agli appunti annotati su un quaderno, alle risposte scaturite da domande precise: di ciò ben poco è rimasto utilizzabile. Perché ho intervistato Olivier Messiaen quando è venuto a Firenze per assistere all’esecuzione della sua grandiosa Turangalîla-Symphonie al Maggio, ma ho fallito. Sbagliando pressoché tutto.

Voi sapete chi è Olivier Messiaen. Non solo un grandissimo compositore – uno dei massimi, certo – ma anche una pagina già incisa nella storia della musica del Novecento, un nome scritto sui libri accanto ai classici, di cui tutto immaginereste fuorché che fosse un vecchietto arzillo (ottant’anni appena compiuti) che veste una camicia a fiori, dai colori così sgargianti che se fosse nostro nonno a indossarla magari pure lo rimprovereremmo. E poi, come si intervista un compositore? Un creatore non parla di musica, è la musica, soprattutto se si chiama Messiaen: l’autore di tante composizioni che vivono da anni, forse da sempre, nella nostra coscienza, che abbiamo udito e riudito, amato e ammirato, discusso, ma come si discute ciò che ci appare grande e intoccabile. Un autore che per caso o per buona ventura è ora ancora nostro contemporaneo, dopo aver contribuito a segnare un’età che già sembra non appartenerci più.

Avevo cominciato, come si fa di solito, chiedendo a Messiaen qualcosa dei suoi studi al Conservatorio di Parigi, dell’influsso che ha avuto sudi lui la tradizione francese, dei suoi autori prediletti, di che cosa provasse a suonare, lui musicista preclaro, l’organo nella Chiesa della Trinità di Parigi, come narrano le biografie e come lui non vuol sentir dire, perché è cosa che appartiene a lui solo, alla sua intimità e alla sua fede. Poteva forse riferire i suoi colloqui con Dio? A richieste futili, risposte evasive; irritate, quasi, alla domanda screanzata circa il suo pensiero su allievi famosi come Boulez e Stockhausen (ma anche questo sta nei libri di storia: il magistero didattico straordinario, unico di Messiaen): se volete sapere quanto valevo come insegnante, chiedetelo a loro, io per parte mia non parlo mai dei colleghi. Come Mime di fronte al Viandante, avevo sbagliato la scelta degli enigmi e dimenticato l’essenziale: non era troppo tardi per rimediare, ma abbastanza tardi, purtroppo, sì.

Dunque, quello che ora leggerete è solo una parte dell’incontro con Messiaen, la parte in cui egli spontaneamente parlò del suo atteggiamento di fronte alla musica e di ciò che significa la creazione per lui. Debbo aggiungere quasi per onestà che in larga misura essa è frutto, più che di un’intervista mancata, della meravigliosa lezione pubblica che Messiaen tenne al Comunale di Firenze per illustrare la sua Sinfonia e i temi che più gli sono cari: senza bisogno che nessuno lo interrogasse. Usò parole e concetti importanti, come vedrete, deponendoli con grazia e naturalezza ai nostri piedi, perché ci chinassimo, se volevamo, a raccoglierli; invitando soprattutto ad ascoltare la musica, dove essi sono realizzati con ben altra pienezza ed emozione. Se qualcosa si sarà salvato qui di quei suoni, di quei colori, di quella consistenza umana che risplende nella musica di Messiaen, anche un’intervista mancata non sarà stata inutile. E si giustificherà perfino che vi figurino delle domande, quelle che avrei dovuto porre a Messiaen e che invece sono solo il risultato, a posteriori, delle sue spontanee, non sollecitate risposte. Anche in questo è la forza di Messiaen, creatore che dà risposte a domande semplici e vere; forse così semplici e vere che le avevamo, da qualche parte, dimenticate.

Ripensando alla sua carriera artistica fino ad oggi, si ha l’impressione di ripercorrere la storia del Novecento in tutta la sua ampiezza e di possederne per così dire alcune chiavi interpretative; voglio dire che anche un secolo tormentato e accidentato come il nostro sembra creativo e positivo, in una parola fertile, allo specchio delle sue composizioni, e soprattutto del suo atteggiamento di fronte alla musica.

Anch’io ho attraversato le vicende del nostro secolo e ne ho risentito, ho partecipato alle battaglie, combattuto le lotte, subìto le reazioni, soprattutto negli anni fra le due guerre, quando Parigi era un terreno arroventato dallo scontro di molteplici tendenze. Neppure un compositore può chiudere le finestre e isolarsi, non foss’altro perché gli influssi del mondo esterno lo raggiungono comunque, anche attraverso le porte sbarrate. E allora è meglio guardare fuori sapendo che cosa cercare, vedere e ascoltare. L’opera del compositore è tutta in questa ricerca mirata, che poi ritorna al luogo d’origine, cioè all’anima, alla sensibilità individuale, dove si concentra la forza creativa. In alcune circostanze è necessario prendere posizione di fronte al mondo esterno, testimoniare, per così dire, la propria verità: ma la verità intera non è quasi mai in questi atti, bensì nell’impegno di fronte a se stessi, nel risultato dell’opera d’arte.

Ciò presuppone un sistema di valori, arduo da decifrare nelle vicende della musica del Novecento.

Chi lavora con i suoni, in ogni epoca, non può non aspirare all’arricchimento del mondo sonoro, né rinunciare a cercare e scoprire nuove dimensioni del suono, nuove combinazioni e possibilità espressive. In primo luogo è questo il compito del compositore. In nome di che cosa ciò avvenga, non può essere invece generalizzato. Per quanto non ami le definizioni, posso dire che per me la musica è un mezzo di espressione nel quale si intrecciano creativamente tre elementi: natura, uomo, fede. E ciascuno di questi tre elementi è in funzione dell’altro.

Che cosa intende con fede?

Fede in Dio. Io sono credente e credo nella natura e nell’uomo, che sono creature di Dio. La mia musica guarda alla natura e parla all’uomo, per celebrare la gloria di Dio.

Come si rispecchiano questi valori nella ricerca compositiva?

La musica è fatta essenzialmente di tre elementi: ritmo, melodia, colore. Le combinazioni di questi elementi sono infinite, e non presuppongono, né sono esaurite da esso, un unico sistema linguistico, per esempio modale, armonico-tonale, dodecafonico, e cito intenzionalmente quelli che si sono succeduti nella storia della musica occidentale. L’esperienza della musica va molto al di là di questi sistemi, e non conosce limiti: è un campo aperto.

Non esiste un problema della forma?

La forma dipende dalla sostanza originaria degli elementi compositivi e delle potenzialità insite nel loro sviluppo. Ciò non toglie naturalmente che si possano usare determinate forme per così dire riconosciute, ed io stesso l’ho fatto più volte. Ma la forma non è necessariamente legata a un a priori, talvolta può riconoscere le proprie leggi strada facendo. In generale, la forma musicale è una allegoria della vita e della morte, un gioco di distribuzione e di ricostruzione, scandito dal ritmo, simbolo del tempo che passa. Molte cose, le più diverse e contrastanti, accadono durante questo passaggio: e sempre è una nuova vita che si manifesta. Alla fine, quando tutto si è compiuto, viene la morte. Ma anch’essa è solo un passaggio verso la resurrezione. Per questa ragione e verità, protagonista della musica, come della vita, non può essere che l’amore, un amore che trascende noi stessi ed è universale, un dono divino che si esprime nella musica e nella creazione, la cui forma è un inno alla gioia.

Credo di aver capito che cos’è per lei il ritmo, personificazione e contrappunto del tempo. Melodia e colore, invece…

La materia che vibra produce non solo altezze ma anche relazioni, nessi fra i suoni, melodie; la qualità del suono è il colore. Questi due elementi sono per me inseparabili. Quando ascolto o leggo una partitura, io vedo dei colori. Ricordo che quando nel corso delle mie lezioni cercavo di stabilire corrispondenze di questo tipo, i miei allievi ridevano e non mi credevano. Invece è vero. Ho studiato a fondo e scoperto le leggi che governano i rapporti fra suono e colore. Ogni complesso di suoni corrisponde a un complesso di colori: via via che si procede verso l’acuto, i colori si sbiancano, e si scuriscono verso il grave; ma se la melodia si muove per salti (di terza, quarta, quinta e così via), i colori cambiano completamente, nettamente. Così, se la melodia viene trasportata, lo spettro dei colori cambia: ciò significa che esiste un nesso ben preciso fra altezza e qualità del suono, fra note e colori. Durante le mie ricerche ho fatto un’esperienza straordinaria: presso alcuni popoli primitivi (noi li chiamiamo così) una melodia non viene più riconosciuta se la si trasporta a un’altra altezza. Ciò prova che la riconoscibilità di una melodia è legata all’altezza e alla qualità del suono, come qualcosa di assoluto. Chi vive più vicino alla natura è più sensibile a questa corrispondenza; e non c’è bisogno di chiamare in causa Baudelaire per ritrovare questa sensibilità applicata anche alla sfera della creazione artistica. Io cerco di essere vicino alla natura. E devo aggiungere che secondo me si sottovaluta l’importanza del diapason: per colpa dei compositori e degli strumentisti la musica è “”cresciuta”” sempre di più, sino a diventare in apparenza più brillante e sensazionale, in realtà più artificiosa. Ciò spiega perchè le colorature della musica del passato appaiano oggi non solo più difficili, ma anche più innaturali.

La voce della natura è per lei il canto degli uccelli.

Ho cominciato ad annotare i canti degli uccelli all’età di diciotto anni, in Francia. Nel Catalogue d’oiseaux, che ho finito nel 1958, ogni brano è dedicato agli uccelli di una diversa provincia francese. Poi sono cominciati i miei giri ornitologici nel mondo, in America, in Giappone e così via. Qui ho scoperto che il mondo degli uccelli è intimamente collegato con tutta la natura, con le piante, i fiori, i profumi, in una varietà infinita. Anche i nomi qui hanno qualcosa di parlante, di suggestivo, di straordinariamente stimolante. Non è solo esotismo. Le melodie, i contrappunti, le polifonie che ho annotato spalancano le porte su meravigliosi mondi musicali, a noi del tutto sconosciuti. Per la mia opera Saint François d’Assise, a cui ho lavorato dal ’75 all’83, sono andato fino in Nuova Caledonia, nel posto più lontano dove potesse andare un francese: e ciò perché San Francesco chiama gli uccelli “”isole lontane””. Ho visto colori ammirevoli, alberi con tronchi bianchi, le foglie rosse, il mare violetto; e ho ascoltato uccelli prodigiosi, che sono stato il primo ad annotare. Poi ho visitato i luoghi dove è vissuto il Cristo durante la sua penitenza, il deserto di Giudea, il Mar Morto, alla ricerca degli uccelli con cui lui stesso parlava, come l’allodola del deserto. La mia più grande gioia è scoprire un canto d’uccello mai udito, e per questo sono sempre al lavoro. Ora sono molto felice perché credo di aver scoperto il rarissimo uccello-lira d’Australia.

Come avviene la trascrizione di questi canti?

Non li trascrivo, semplicemente li annoto come li ascolto, con le loro altezze, i loro ritmi. La cosa più difficile è renderne il colore. Non sempre bastano i timbri di singoli strumenti, come l’ottavino, lo xilofono, il flauto, occorre trovare complessi di timbri che corrispondano alle sfumature e alle gamme di colore. E’ un lavoro estremamente affascinante.

Che cosa pensa della musica elettronica?

Non mi sento dotato per la musica elettronica, ma la ritengo la più grande invenzione del ventesimo secolo. Dopo l’esperienza elettronica è cambiato anche il modo di orchestrare, di lavorare con gli strumenti tradizionali: il mondo sonoro si è arricchito. Io però ho bisogno di strumenti umani, della presenza fisica della persona che li suona. Molte delle mie composizioni per pianoforte sono nate per Yvonne Loriod, che non è solo una eccellente interprete ma anche mia moglie. Inoltre voglio essere padrone dei suoni che uso e con la musica elettronica non lo si è mai.

Credo però di aver trovato lo strumento elettronico a me più congeniale, e cioè le onde Martenot: uno strumento nel quale timbri inediti, irreali, soprannaturali sono prodotti dall’uomo e hanno consistenza umana. Già nel 1939 ho scritto una composizione per un’orchestra di onde Martenot, cosa che allora fu ritenuta una pazzia, ed era invece solo un’anticipazione delle ricerche che dopo la guerra avrebbero portato alla esplorazione di campi nuovi, dalla musica concreta di Pierre Schaeffer alla musica elettronica vera e propria. Dunque non mi ero sbagliato. Nella Turangalîla-Symphonie ho usato le onde Martenot come strumento solista accanto al pianoforte principale e all’orchestra, fondendo tutta una serie di esperienze compositive e timbriche.

Quest’opera è una specie di summa della sua poetica musicale.

Se lo è diventata, lo debbo anzitutto alla generosità del committente. Quando Sergej Kusevitzkij mi chiese un pezzo per la sua orchestra di Boston, nel 1944, non mi pose limiti: fate quel che volete, mi disse. Questa Sinfonia è in dieci movimenti e dura quasi due ore, ma è esattamente il tempo e lo spazio che sentivo necessari per ciò che avevo da dire con quei mezzi. L’editore Durand ne fu spaventato e mi chiese di cambiare almeno il titolo, dato che l’opera presentava già di per sé non pochi ostacoli alla diffusione. Ma per me anche il titolo era essenziale. In seguito la Turangalîla-Symphonie si è rivelata anche un buon affare per l’editore: non saprei dire quante esecuzioni abbia avuto, so solo che io stesso ne ho ascoltate non meno di duecento, in ogni parte del mondo, sotto la guida di grandissimi direttori. Mi rimane il rimpianto che Kusevitzkij non l’abbia potuta tenere a battesimo, perché morì prima che fosse finita, lasciando quell’incarico a Leonard Bernstein.

Al di là dei valori musicali molto complessi, qual è l’idea di fondo che regge questa composizione?

Il suo significato è racchiuso nella parola sanscrita posta come titolo: “”turanga”” è il tempo che corre come un cavallo al galoppo, “”lila”” è la creazione che riempie questo tempo. Naturalmente ciò significa molte cose al tempo stesso. Ci sono tre figure fondamentali che guidano questo processo e che si influenzano reciprocamente, tre personaggi incarnati nel tempo: il primo attacca e aggredisce, il secondo viene attaccato e si difende, il terzo guarda e assiste passivamente, immobile sullo scorrere del tempo. Anche questa è una metafora della vita, che si scioglie in un inno all’amore, le cui proporzioni e implicazioni sono smisurate.

Come nel Tristano…

Per me l’amore, che trascende il nostro pianeta ed è cosmico, non conduce alla morte, ma alla vita, alla luce, alla scoperta del valore di tutte le cose. Come il canto degli uccelli, la voce dell’anima e della natura. Come l’organo della Trinità. Forse, più che Tristano, Parsifal


Musica Viva, n. 3 – anno XIII

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