Dove non si distingue l’aurora dal crepuscolo

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Doppio anniversario per Richard Strauss che attraversò la storia per trasfigurarla, in un teatro coinvolgente e distaccato

Con un anno di anticipo sulla ricorrenza degli anniversari, l’Opera di Stato di Monaco ha rappresentato nell’arco del festival di luglio, per lo più sotto la direzione sovrana di Wolfgang Sawallisch, con buoni cantanti e allestimenti non trascendentali, l’intera opera teatrale di Richard Strauss; portandone poi una parte, preziosa perché costituita da lavori raramente eseguiti come L’amore di Danae, Daphne e La donna silenziosa, in tournée alla Scala. La duplice occasione si presta a qualche riflessione d’assieme, non foss’altro per registrare l’impatto che il teatro di Strauss, a così alte dosi di concentrazione, nelle condizioni di un ascolto ravvicinato dal vivo, può produrre su uno spettatore travolto da un oceano smisurato di musica e tuttavia desideroso, dopo aver toccato di nuovo finalmente terra, di stabilire qualche punto fermo: setacciando le impressioni nel ricordo e mettendone a frutto l’esperienza.

Tutto Strauss in meno di un mese non è uno scherzo, e non è facile resistere alla tentazione dell’iperbole. Ad evitarlo, ci soccorre l’epigrafe che l’Opera di Monaco pubblica a suggello della sua integrale, togliendola dalla penna di Glenn Gould. I1 quale, con il ditino un po’ alzato ad ammonire, ha scritto che la musica di Strauss oltrepassa tutte le considerazioni futili e sterili del cronista per illuminare la figura di un artista che arricchisce la propria epoca senza dipenderne e parla per tutte le generazioni senza appartenere a nessuna; Strauss, continua Gould, dimostra che l’uomo in quanto individuo può operare una propria sintesi del tempo e sfuggire alle costrizioni ch’esso gli pone.

Ciò è bello e nobile ma forse non del tutto vero, all’atto pratico. D’altronde, Gould mica andava a teatro a sentirsi tutto Strauss. Comunque sia, il suo invito valga affinché il “”presenzialista”” di turno dimentichi per una volta il tempo e il luogo, e guardi, anche lui, un po’ al di là.

 

 

Strauss, 1864-1949

 

Nel 1989 cadranno dunque i 125 anni dalla nascita e i 40 dalla morte di Strauss. Già queste semplici cifre pongono la questione di inquadramento storico. Quando Strauss nasceva a Monaco erano ancora vivi e operanti (e neppure al culmi-ne della loro carriera) Verdi e Wagner, Brahms e Bruckner; quando egli moriva nella dorata solitudine di Garmisch, operoso fino all’ultimo, non soltanto quei nomi appartenevano già alla storia e al passato, ma si erano anche compiuti eventi di portata enorme, in campi non solo artistici: ciò che muta di conseguenza non è solo il contenuto, ma anche la prospettiva dell’opera d’arte. Nella musica del Novecento la nozione di modernità si collega al rifiuto del passato, e dell’Ottocento in modo particolare, e mira a costituire nuove coordinate linguistiche ed espressive; nel teatro questo distacco si fa anche più acuto, mentre l’ansia di testimoniare e manifestare la situazione contemporanea si colora di tinte fosche e livide. Dubbio, degradazione, impotenza, sintomi di un malessere esistenziale, invadono tragicamente (o grottescamente, con lancinante ironia) i confini del teatro e delle sue finzioni sceniche, e le trasformano, quando le distruggono.

Queste tendenze generali non trovano riscontro nel teatro di Strauss. Almeno non dopo i due atti unici Salome e Elektra, rispettivamente del 1905 e del 1909, e dunque cronologicamente appartenenti a quel cruciale decennio acceso dalla fiamma espressionista. Qui Strauss sembra concentrare al massimo le caratteristiche del dramma musicale wagneriano in una visione della tragedia pervasa di sconcertanti novità linguistiche, lacerata da oscure atmosfere timbriche, e tuttavia elevata, per dominio formale ed espressivo, al rango della classicità. Ma questi due lavori, che dettero al compositore fama e ricchezza, rimasero isolati nella sua produzione. Dopo di essi, anche quando egli si sarebbe riaccostato al mondo antico, di tutt’altro tipo sarebbe risultata la sua concezione teatrale: sempre meno orientata sui valori dominanti nel teatro del Novecento, sempre più tesa a recuperare, con le convenzioni, le sfumature delle passioni, per decantarle in una sorta di progressiva trasfigurazione lirica, di sereno, obiettivo distacco. Che racchiude però il calore sferzante di una vampata.

 

 

Teatro di eroine

 

La differenza più evidente fra i poemi sinfonici, che dominano la produzione di Strauss sino alla fine dell’Ottocento, e le opere teatrali, che, con la sola eccezione di Guntram (1894: lavoro che rappresenta un’estensione allà scena dei principi costruttivi del poema sinfonico, quasi la visualizzazione di un programma con personaggi incarnati), vedono tutte la luce nel Novecento, è nella scelta dei soggetti e dei protagonisti. Maschili là, femminili qua. Ad eroi (giacché eroico, per costituzione, è comunque il tono, ed epico il respiro) come Macbeth, Don Giovanni, Till Eulenspiegel, Don Chisciotte, Zarathustra, fino all’Eroe per eccellenza che celebra la propria vita, si vengono sostituendo nel teatro, via via, eroine, o comunque figure di donna con ruoli di protagoniste: Salome, Elektra, la Marescialla del Cavaliere della rosa (1911: non è forse lei la protagonista, nonostante il titolo?), Arianna (1916: e Zerbinetta e il Compositore che, come del resto Octavian, è voce femminile), l’Imperatrice e la Tintora della Donna senz’ombra (1919), la Moglie di Intermezzo (1924), Elena egiziaca (1928), Arabella (1933), La donna silenziosa (1935), Daphne (1938), L’amore di Danae (1942), fino alla Contessa che sta al centro di Capriccio (1942). Una galleria davvero impressionante di personaggi femminili, che trova un raffronto soltanto in Puccini, almeno fino a un certo punto, e un’analoga consistenza drammatica (oltre che un precedente compositivo) in Wagner.

Questo predominio delle figure femminili è naturalmente collegato al tema, altrettanto emergente, dell’intreccio amoroso, e più precisamente ancora a quel l’eros che anima quale istinto primordia le tutto il teatro di Strauss. E così già partire dall’opera che segna una svolt nella sua carriera teatrale (Feuersnot 1901) e che, in modo ancora ingenuo diretto, si avvia alla conquista del campo drammatico proprio mettendo in scena la forza perentoriamente vitale dell’impulso erotico, capace, non solo metaforicamente, di accendere i fuochi spenti nella magica notte di San Giovanni: ma qui la donna era ancora costretta subire l'””eroismo”” maschile.

Se amore ed eros erano da sempre i motivi ispiratori del teatro lirico, Strauss pone al centro di conflitti che trascendono il dato immediato dell’intreccio. Essi divengono simboli o specchi (l’immagine allo specchio è un motivo ricorrente lungo tutto il suo teatro) di una ricerca dell’identità che si compie attraverso la realizzazione o la rinuncia: e in entrambi i casi (si pensi da un lato alla Donn senz’ombra, dall’altro al Cavaliere della rosa) l’istinto erotico si sublima in consapevolezza di sé, provocando una catarsi spirituale.

E’ ciò che Strauss raggiunge compositivamente nei punti culminanti delle sue opere, e soprattutto nei finali, quando il canto disteso, l’ampio respiro melodico sostenuto mollemente dall’orchestra, l’effusione lirica e lo slancio verso l’alto, sempre più in alto, sembrano fermare il tempo e trascolorarsi luminosamente, fino a che la trasfigurazione non si compiuta sotto i nostri occhi. In quei momenti, l’opera torna ad essere pur espressione di stati d’animo, sospesa e  volteggiante nella contemplazione dei sentimenti fatti canto. Ed è chiaro che anche pensando a quei momenti il suo non poteva essere che un teatro di eroine, di primedonne.

 

 

Libretto e musica

 

Già molto tempo prima di mettere in scena nella sua quindicesima e ultima opera Capriccio il tema del rapporto fra parole e musica, arti insieme amiche e nemiche, Strauss, che proveniva dall’esperienza dei poemi sinfonici, era consapevole che un teatro sviluppato sinfonicamente ma finalizzato al canto dipendeva dalla stretta interdipendenza e dall’equilibrio fra le due componenti. A differenza di Wagner, che credeva ciecamente nella capacità di sintesi dell’azione drammatica, per lui l’intonazione di un testo, cioè di parole che diventano canto e dialogo, determinava il dramma, e non viceversa: per questo il declamato di Wagner, intrinseco all’orchestra, si distende in Strauss in frasi melodiche di ampio raggio, ma concluse in se stesse. Proprio la profondità dell’esperienza sinfonica lo poneva in una posizione privilegiata: il salto di qualità stava appunto nell’aggiunta determinante di un testo a far da guida all’azione, resa a sua volta esplicita col concorso della musica.

Strauss trovò abbastanza presto in Hugo von Hofmannstahl un collaboratore ideale, come lo era stato Da Ponte per Mozart, non soltanto per la sua finezza letteraria, ma soprattutto per la sua capacità di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda mantenendo tuttavia un’autonomia assoluta. Dopo la riuscita fulminante di Elektra, che Strauss musicò sul testo preesistente di Hofmannstahl, i due capirono che ciò che li accomunava era una visione identica del teatro e forse dell’opera: un mondo di pura invenzione, irreale e inattuale, capace però di suscitare emozioni e di coinvolgere, nell’animo e alla mente, chi fosse disposto a stare al gioco. Per far ciò, non dovevano esserci limiti alla convenzione, né alla fantasia: il serio e il comico, la tragedia e la commedia, lo stile basso e quello elevato, il tono edificante e quello divertente, niente doveva essere escluso dal terreno dell’immaginazione. Il punto di equilibrio, che talvolta ha del sublime, è nel “”mezzo-carattere””, nella sfumatura sottile, che collega gli estremi fino a farli coincidere. E a confermare che alla fine tutto è un gioco (ma quale gioco, da restarne abbacinati), viene la norma della conclusione lieta, che spazza via le nubi per sospendersi estaticamente in un indugio infinito, irrorato di canto: dove anche la nostalgia e il rimpianto sono così belli (la Marescialla del Cavaliere della rosa) da aprirci gioiosamente il cuore, e intenerirci.

Forse è sbagliato ripetere, come si è soliti fare, che le opere di Strauss successive alla morte di Hofmannstahl (così tragica da gettare un’ombra, e ce ne fosse bisogno, sul supremo distacco della sua arte) siano ricolme di grande musica mal servita dal testo. Piuttosto, alla deliziosa comicità della Donna silenziosa, alla febbrile tensione di Daphne (evidentemente in funzione di un finale che è forse il più bel finale tragico di Strauss) o alla serena mitologia della Danae mancano proprio quelle sfumature impercettibili del “”mezzo-carattere””, capaci di spostare continuamente gli equilibri del dramma fino a farcene comprendere la totalità: una totalità che è il risultato di tanti piccoli tratti perfettamente compiuti in se stessi e nella quale l’evidente dissimulazione si trasforma impercettibilmente in vivida realtà. E ci commuove, ambiguamente.

Mettendo in scena nella sua ultima opera il tema stesso del rapporto fra testo e musica, Strauss divenne anche librettista. Lo era già stato, oltre che nell’acerbo e gracile Guntram, nella commedia Intermezzo, per raccontare autobiograficamente, tra il serio e il faceto, un episodio della propria vita di musicista celebre, al solito trasfigurandolo in un’apoteosi, questa volta dell’amore coniugale e della felicità borghese. In Capriccio, pur avvalendosi della collaborazione di Clemens Krauss, era Strauss stesso a tirare le fila, sino a riconoscere nella discussione sul primato delle parole o della musica nell’opera uno scioglimento impossibile: niente happy end, ma invece tutto rimane in sospeso, senza neppure la consolazione di un ultimo inno. Mentre sfilano le citazioni delle opere precedenti come argomenti lontani per un’opera incompiuta, la finzione si mescola alla verità e la Contessa oscilla tra due fuochi: l’azione della vita diviene illusione, quella del teatro realtà. L’ultimo interrogativo rivolto allo specchio è: c’è una conclusione che non sia banale?

 

 

Mitologia e mito

 

La mitologia, che fa il suo ingresso nel teatro di Strauss con Arianna a Nasso all’epoca della prima guerra mondiale, riemerge dopo lungo tempo a ridosso della seconda, dopo un’opera comica (La donna silenziosa) e un’ambigua opera in un atto inneggiante alla pace, ambientata alla fine della Guerra dei Trent’Anni (Giorno di pace). Ma Daphne e L’amore di Danae sono assai diverse da Arianna a Nasso, e non solo per il divario fra i due testi di Joseph Gregor e quello di Hofmannstahl. Nell’Arianna la rappresentazione dell’opera mitologica ha luogo in un palazzo signorile, per intrattenere gli ospiti dopo un ricco banchetto, ed è inframmezzata dagli intermezzi comici delle maschere della Commedia dell’Arte. La finzione del teatro nel teatro, e la riflessione sul teatro nel Prologo, si rifrange come in un caleidoscopio, dando luogo a disegni molteplici e simmetrici, di cui anche l’argomento mitologico è un oggetto riflesso. Daphne e Danae sono invece due opere di soggetto mitologico, con una loro vicenda essenzialmente rispettata, per così dire in presa diretta, e con personaggi che sono quelli autentici della tradizione mitologica, da Apollo a Giove e via dicendo. E anche se in Danae non mancano accenni comici, il tono generale è in consonanza con l’argomento, senza ulteriori meditazioni. Grandioso e solenne come si conviene, appunto.

Che Strauss componesse opere di questo genere alla vigilia di una immane catastrofe mondiale; e che lo facesse con squisito disimpegno e con mano leggera, fra dèi e divine in costume e scene olimpiche, parve un atto inaccettabile, oltre che irresponsabile. Ciò spiega in parte perché questi due lavori, non certo inferiori per qualità musicale a molti altri di lui e del repertorio corrente, siano stati à lungo sospettati ed emarginati. La riabilitazione avviene, come spesso accade, con ragionamenti speciosi. Nell’opuscolo che accompagna la bella mostra allestita dall’Opera di Monaco per l’occasione trova posto, accanto a un saggio ispirato del nostro Quirino Principe, uno scritto di Stephan Kohler. Egli, con l’autorità che gli proviene dal fatto di dirigere l’Istituto Strauss, rivendica l’estraneità dell’artista ai tempi oscuri in cui visse, e ne afferma anzi la volontà di illuminare e disperdere con le sue creazioni quelle tenebre. Insomma, il mondo degli dei come allegoria e riscatto dell’umana follia, come compianto per una civiltà in agonia e già prossima alla sua fine. Una variazione sul tema di Gould.

Se compianto ci fu, non fu tanto per il mondo che si estingueva ma per il teatro che chiudeva la sua storia e che si riallacciava ai suoi primordi per celebrarne ancora una volta, l’estrema, i riti. La mitologia nel teatro di Strauss è la manifestazione di un mito che va oltre i contenuti e gli argomenti specifici delle opere: è il mito stesso del teatro, riconsegnato alle Madri dopo essere stato rivisitato e ricomposto con tutti i mezzi della modernità nel loro massimo splendore vocale e orchestrale, drammatico e musicale, in quel punto dell’orizzonte dove non si distinguono più aurora e crepuscolo.

 

 

Strauss, oggi

 

A modo suo, Strauss è un rappresentante esemplare della coscienza del Novecento, ma il suo teatro affonda le radici nel passato ed esprime il rimpianto per un mondo nel momento stesso in cui ne riafferma la perennità. Nasce così quel senso, di coinvolgimento e di distacco insieme, che ci prende quando ascoltiamo le sue opere; da cui usciamo comunque rasserenati e pacificati, ammirati e pieni di gratitudine, anche se sempre un po’ malinconici: forse ancor più quando la grazia leggera e l’eleganza brillante delle sue commedie, in fondo così futilmente attraenti, si sostituiscono all’eloquenza fluente dell’effusione lirica, alle pose del canto modellato scultoreamente, al gesto perentorio e definitivo delle scene d’insieme o dei grandi monologhi tragici a piena orchestra.

Mai, neppure quando la nostalgia dovette farsi piú acuta, Strauss rinunciò alla fede nelle capacità trasfiguranti del teatro. Mai pensò ch’esso dovesse farsi carico di denunzie o pronunciamenti, di confessioni strettamente personali, se non con ironia. E, d’altra parte, troppo forte era il suo amore nei confronti della beata illusione del teatro per tradire quelle leggi eterne che a lui, eredità di cultura e di tradizione, erano state consegnate dai progenitori, affinché le facesse rivivere nel secolo dello scetticismo e della negazione. Strauss, oggi, significa per noi soprattutto questo: un atto dà amore verso il teatro, dove nostalgia, intelligenza e sensibilità s’intrecciano al magistero tecnico-compositivo di un virtuoso. Un antidoto al pensiero di inutilità che sovente ci attanaglia.


Musica Viva, n. 10 – anno XII

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