Ritorna in tutta Europa la Tetralogia di Wagner: nella nuova riflessione della regia la stessa necessaria ambiguità dell’antica ingenua messinscena, inadeguata a rilevare quella complessità smisurata, provvida per farcene sentire l’attualità e l’inafferrabile grandezza
Da Monaco a Berlino a Francoforte, da Varsavia a Nizza a New York, da Orange a Bayreuth (già, anche lì), è più che mai tempo di Tetralogia. E una volta tanto noi non siamo da meno. Dopo L’oro del Reno dell’anno scorso, Bologna inaugurerà la stagione con La Walchiria, assicurando il completamento del ciclo nel prossimo biennio; Torino, che l’ha già realizzato in due anni, propone addirittura l’integrale nell’arco di una settimana, a settembre. Ciò non accadeva in Italia da tempo immemorabile. Non ci riuscì la Scala, che anzi lasciò l’impresa a mezzo, dopo il Sigfrido, senza neppure far sapere come andavano a finire le cose (ricordate, era l’epoca in cui Ronconi faceva scandalo: gli anni Settanta); né Firenze che, ripreso quell’allestimento “”scandaloso”” (nel frattempo divenuto di successo, e poi di moda), lo portò sì a termine, ma rinunciando a presentarlo unitariamente tutto assieme, come pure era stato promesso, al Maggio Musicale. Intanto c’era stata la Tetralogia del centenario (1976) a Bayreuth, firmata Patrice Chéreau: dissacrante, irritante, ma comunque originale, e in parecchi tratti anche bella. Fu in un certo senso la svolta. Giacché sanzionò, nonostante la presenza di Pierre Boulez nell’invisibile golfo mistico (diciamo la verità: abbastanza deludente), l’avvenuta consegna del monumento wagneriano nelle mani dei registi, ossia del teatro d di concetto con ambizioni interpretative attuali, moderne, incisive, quando non prevaricanti, sulla sostanza drammatica dell’opera; con ambientazioni sempre nuove (ottocentesche, novecentesche: dal mito alla storia), letture allegoriche (il simbolico elevato al quadrato), forzature ideologiche (dal sacro al profano). Imboccata questa strada (senza ritorno?) L’anello del Nibelungo si è trasformato in un documento della nostra epoca con tutte le ansie e le inadeguatezze che essa comporta, ma anche con la volontà di cimentarsi con ciò ch’esso contiene nelle sue smisurate proporzioni, e di trovarne il significato per noi, al di là della poesia, della musica e del dramma, o insieme con essi, nell’utopia della totalità dell’opera d’arte voluta da Wagner. E più l’impresa sembra farsi disperata (perché, si dice, scarseggiano le voci, faticano i direttori nel confronto con i grandi di un tempo, che l’industria discografica continua a immortalare con sempre più luminose riedizioni), più si sente il bisogno di tornare alla Tetralogia, di viverla e farla rivivere nelle nostre attuali condizioni, per modeste ch’esse siano (ma lo sono poi davvero?). Dal vero, possibilmente, e tutta intera.
Proprio rievocando una sua esecuzione radiofonica in forma di concerto, Wolfgang Sawallisch affermò che niente in Wagner, e nell’Anello in particolare, può sostituire l’impatto diretto con la scena, con il teatro; e aggiunse che, per quanto grande fosse la sua nostalgia per la visione stilizzata e allusiva di Wieland Wagner, oggi una interpretazione di quel tipo sarebbe improponibile, inattuale. Tutto muta e si consuma; anzi, per dirla con le parole di Wagner stesso, “”tutto ciò che esiste ha una fine””, giusta l’ammonizione di Erda nel prologo L’oro del Reno: per poi ricominciare da capo, sempre, enigmaticamente, come insegna ancora il Crepuscolo degli dei. Fermare questi attimi, e dare loro un significato, emozionarsi, commuoverci, mentre la piena travolgente del dramma musicale ci scorre davanti imponendo i propri spazi e i propri tempi, così dilatati, così sfuggenti, così pregni di relazioni e di suggestioni, è ciò che noi chiediamo ogni volta a una intepretazione della Tetralogia, e prima ancora a noi stessi: confrontare con quelli i nostri spazi interiori e i nostri tempi psicologici, umani. Che cambiano, anch’essi, con ineluttabile continuità, ogni volta.
Ecco perché l’infinito della Tetralogia non cessa di attrarci. Ciò che vi accade (e prescindiamo per ora dalla grandezza della musica, da un ascolto per così dire estetico) è la rappresentazione di un mondo spalancato su un universo di cui non sappiamo con certezza antecedenti e conseguenti. Che cosa c’era, c’è, prima del mi bemolle grave con cui, quasi simbolo della genesi della musica come linguaggio, si inizia il prologo L’oro del Reno? Quanto tempo passa tra il prologo e la prima giornata, La Walchiria? (La ripresa del motivo della tempesta dalla fine di quello all’inizio di questa indica, con geniale concisione, una sorta di contemporaneità; ma è come se fosse trascorso un tempo smisurato, senza confini). E ancora. Come si intersecano i destini di Wotan, Brunilde e Sigfrido (e quelli di Siegmund e Sieglinde), dove avviene la peripezia, perché fallisce l’eroe? Da ultimo, che cosa sarà dopo la cadenza sospesa di re bemolle maggiore alla fine del Crepuscolo degli dei, sull’enigmatico motivo dei violini che annunciano, nella catastrofe, un nuovo inizio? Anche qui, un simbolo musicale di estrema pregnanza rimanda all’infinito la risposta, o meglio la elude: un accordo alterato (mi bemolle, sol bemolle, si doppio bemolle, re bemolle) incorniciato dai due suoni fondamentali (mi bemolle, re bemolle) con cui l’immenso ciclo si apre e si chiude, e su cui si fonda la sua architettura, che cela però al suo interno un equilibrio instabile, irriducibile a una soluzione univoca. Tragedia. Redenzione. Trasfigurazione. O ritorno all’inizio, nel ciclo esterno delle trasformazioni. Ecco l’altra faccia della Tetralogia: tutto racchiuso in un solo accordo, in un attimo folgorante che può durare un’eternità.
Il tempo, lo spazio, il prima e il poi. Intessuto nella fitta trama delle relazioni tematiche sviluppate dall’orchestra con la drammaturgia musicale dei Leitmotive. Anche qui, come è cambiato il nostro modo di intendere e intrecciare le fila dei famigerati “”motivi conduttori””. Nei programmi di sala, al posto delle ingenue semplificazioni di Hans von Wolzogen (lancia di Wotan = scala, spada di Sigfrido = arpeggio, e via dicendo; a ogni personaggio il suo marchio di riconoscimento: vecchio, caro modo di entrare in un linguaggio così complicato, con la fanciullesca sicurezza degli eroi senza paura), si stampano i densi saggi di Dahlhaus che, novello Fafner, “”giace e possiede”” i criteri moderni della comprensione, del tutto relativi. Di cui, però, non potremmo, né sapremmo, fare a meno. Curiosa contraddizione: proprio nell’epoca che predica, come suoi valori emblematici, la velocità e la semplificazione delle cose, che scivolano via in superficie, alla Tetralogia ci rivolgiamo proprio per la sua mostruosa complessità e molteplicità di riferimenti, senza accontentarci mai di svuotarne il fondo. Non ci basterebbe più, ammesso che i registi acconsentissero, una lettura per così dire di primo livello, che si attenesse beatamente al quia (ci provò a Bayreuth, cinque anni or sono, con discrezione tutta inglese, Peter Hall: peggio che un insuccesso, fu un non-evento); probabilmente la giudicheremmo banale, anche come storia.
Si spiega così la tendenza ad affrontare la Tetralogia nella sua integrità, che oggi prevale, e a dilatare all’estremo quei riferimenti molteplici sino a sconfinare nell’irreale e nell’indistinto di una simbologia che tutto vuole abbracciare e contenere. E se è vero che ogni epoca ha il suo modo di intendere anche le opere d’arte proiettandole nel presente, a sua propria immagine e misura, allora la Tetralogia può anche assomigliare a un interminabile serial televisivo, con colpi di scena improvvisi che rimandano alla prossima puntata, e buoni che diventano cattivi (l’incredibile trasformazione di Sigfrido, di una modernità sconcertante sotto questa luce), lotte per il potere e per la sopravvivenza, mascalzonate e inutili sacrifici, in una girandola di situazioni che accresce l’attesa e tuttavia la sospende, dandoci perfino il tempo di entrare ed uscirne a nostro piacimento.
Il paragone non sembri sconveniente: fu Wolfgang Sawallisch a proporlo nella succitata rievocazione. Paradossalmente, certo; ma fino a un certo punto. Il fatto è che L’anello del Nibelungo non esclude alcuna possibilità di interpretazione, dalle più sublimi alle più triviali: come se, inconsciamente, Wagner ne avesse calcolato tutti i possibili effetti. Egli credeva, orgogliosamente, che la potenza della musica avrebbe comunque trionfato su tutto: e non aveva torto. Collocando le vicende della Tetralogia nella sfera del mito, le rese universali; in altri termini, non eluse il confronto con la storia, ma semplicemente la trascese, affinché ogni epoca potesse vedervi rispecchiata la propria storia, la propria attualità, in modo sempre nuovo. Ogni epoca avrebbe avuto così la sua Tetralogia; ma ciò che la Tetralogia era, ed è, in fondo non sarebbe mai cambiato.
Lo spazio, pur grandioso, della sua rappresentazione copre solo un tratto di un cerchio infinito; che lo si sposti come si vuole, a destra o a sinistra, il cerchio rimane intatto, e non sarà mai possibile percorrerlo interamente, sino all’esaurimento. Quel che ci rimane è solo un segmento: e nello stesso tempo l’intuizione, la consapevolezza della sua infinità. La metafora, e ciò ch,’essa significa, è già nel titolo: non è forse un cerchio l’anello? Wagner aveva dunque previsto tutto, pefino le più ardite sovrapposizioni ed elucubrazioni registiche: tratti, appunto, che si aggiungono ad altri tratti; e le incarnazioni simboliche, che nella loro univocità lineare, qualunque essa sia, rompono, ma non distruggono, l’unità sferica. Pensate solo a Sigfrido, l’eroe centrale dell’azione: emblema della volontà di potenza e di dominio sul mondo della Germania di Hitler, egli è divenuto oggi sovente la personificazione della sconfitta dell’individuo, solo e disarmato di fronte alla società; e il nano Alberich, un tempo effigie della “”perfida razza ebrea””, così sgradita agli ariani, veste oggi di preferenza le uniformi del terzo Reich, senza troppi imbarazzi. Gli estremi si toccano, e si annullano a vicenda; anche sommati, non coprirebbero mai il cerchio.
Come raccontare allora la trama dell’Anello del Nibelungo, e come metterlo in scena? Alla prima domanda verrebbe voglia di rispondere, con Wagner, che si tratta di una favola, approssimativamente: ma subito il proppista di turno ci tirerebbe le orecchie, contestando, se non altro, l’avverbio. Un apologo, allora. Già, ma di che? C’era una volta il Reno (no, c’è tuttora, ed è pure assai inquinato: interpretazione ecologica) e nelle sue acque profonde e tranquille un tesoro (no, il capitale: interpretazione marxista, oggi però non più di moda) vegliato amorosamente da tre ondine (puttane, vorrai dire: sociologia). Come vedete, già andiamo male, e non sono neppure finite le 137 battute del preludio orchestrale dell’Oro del Reno. Eppure questa trama è bellissima, e in fondo semplice, chiara, anche per sommi capi. Per conquistare il tesoro Alberich maledice l’amore; Wotan glielo sottrae con l’astuzia, per pagare con esso ai giganti la costruzione di una reggia inespugnabile, il Walhalla. Alla fine del prologo gli dei vi fanno il loro ingresso, ma una marcia in 3/4 un po’ sinistra ci dice che non si tratta di un ingresso trionfale. Erda, infatti, ha appena profetato, lei onnisciente, che presto la stirpe degli dei si estinguerà per colpa di Wotan, e non solo sua.
Nella Walchiria, prima giornata della sagra scenica, Siegmund e Sieglinde, generati da Wotan, si ritrovano e si amano, benché fratelli: da loro nascerà Sigfrido, l’eroe predestinato alla redenzione della colpa originata dal furto del tesoro, fuso in un anello dal potere magico. Brunilde, la Walchiria, punita da Wotan per aver disubbidito ai suoi ordini e aver salvato la madre di Sigfrido, addormentata su una roccia cinta dal fuoco, verrà risvegliata dall’eroe alla fine della seconda giornata, Sigfrido appunto: non prima ch’egli abbia riconquistato l’anello dalle spire del drago in cui si è mutato il gigante Fafner.
Nella terza giornata, Crepuscolo degli dei, la peripezia e l’epilogo. Sigfrido, stordito da una droga, tradisce Brunilde, e Brunilde tradisce Sigfrido per gelosia, consentendo ad Hagen, su mandato di Alberich, di uccidere a tradimento l’eroe: il quale, prima di morire, ricorda e rievoca ciò ch’egli era stato. La marcia funebre di Sigfrido precede l’olocausto di Brunilde che, prima di immolarsi, riconsegna l’anello alle figlie del Reno. Tutto brucia e si annulla, sospendendo il giudizio sul significato della fine. Nel simbolo circolare dell’anello è chiuso l’enigma se si tratti di un nuovo inizio da un altro punto di partenza, o di un ritorno infinito allo stesso inizio.
Che per svolgere questa trama tutto sommato semplice e chiara, riducibile a schema (salvo che in due punti nodali: la trasformazione di Sigfrido e il finale del Crepuscolo degli dei, l’uno drammaturgicamente irrisolto, l’altro volutamente aperto), occorrano quasi quindici ore di dramma e di musica profondamente intrecciati significa che moltissime cose avvengono al suo interno e contemporaneamente, attorno a questo filo principale. Tanto da rendere la sintesi possibile, ma inadeguata.
L’analisi spetta appunto all’interpretazione, musicale e scenica. I quattro elementi, aria acqua terra fuoco, ne compongono la materia, generano il cosmo, da cui si originano corpi (personaggi, situazioni, eventi) in conflitto fra loro. Questa separazione è già fonte di dramma, tragedia: la Tetralogia ne racconta la Moria, per filo e per segno, e ne trae da ultimo le conseguenze. La maledizione di Alberich è solo il detonatore che provoca l’esplosione; ogni tentativo di ricomporre in seguito l’ordine e l’armonia del mondo sfocia in disfatta, sempre più amara e penosa. E importante però che tutti ci provino, amando e soffrendo a loro modo e secondo le proprie possibilità: sentiamo pietà per Wotan, Brunilde, Sigfrido. Accanto agli sconfitti veglia Alberich che, con la sua malvagità, forse inconsapevole o perlomeno indotta dalle circostanze, determina e accelera la corsa verso l’abisso, trascinando seco la catena della dissoluzione. E curioso che Wagner, assegnando alla fine del Crepuscolo un destino ad ognuno dei personaggi fin lì sopravvissuti, o presenti in scena, si sia dimenticato di dirci che cosa accadrà di Alberich. Di lui, a quel punto, non sapremo più nulla. Ed è una scomparsa che inquieta.
Ma come rappresentare tutto ciò in forma visibile, senza tradire l’essenza di un’opera costituzionalmente basata sull’ambiguità e sul contrasto, sulla contraddizione, sul dissidio fra volere e potere, sull’inestricabile intreccio di realtà e apparenza? Per allusioni, come si faceva una volta, o per concreta identificazione dei simboli, il che si tende a fare oggi? Wagner rivestì i suoi personaggi di elmi e corazze solo per convenzione, d’accordo, creando così l’involucro esterno, apparente, del mito, secondo l’immagine della sua epoca e della sua cultura; ma convenzione, allo stesso modo, sono gli abiti ottocenteschi o moderni di cui li rivestiamo noi oggi, credendo così di svelare significati profondi e relazioni nascoste. Altrove è il nucleo poetico, l’arco drammatico della Tetralogia. Forse davvero nella musica, nella sua drammaturgia, come credeva anche Wagner: un linguaggio che però, com’è proprio della sua natura, e per quanto differenziato e sottile giunga ad essere nella rete delle trasformazioni compositive, niente di sicuro e di definitivo afferma. E allora? Il peggio che possa capitare, assistendo all’Anello del Nibelungo, è credere di capire tutto, e di poterne spiegare ogni aspetto, magari con associazioni automatiche. Più facile è capire, quando la regia si scontra con la musica, ciò che la Tetralogia non è, e non può essere: la riduzione a un’unica chiave di lettura sovrapposta al testo. Ma anche in tali casi ciò che viene perduto esalta il molto che rimane; e non c’è regia, per quanto futile o arrogante, che possa distruggerlo.
Narra Cosima nei suoi diari che ci fu un momento nel quale Richard stesso dubitò della comprensibilità della sua opera; al punto che, se avesse potuto, avrebbe voluto riscriverla da capo, per chiarirla meglio. Fu come una vertigine che l’assalì, e poi scomparve d’improvviso, com’era venuta, lasciando un senso di liberazione, di calma assoluta. Forse da quel momento la Tetralogia cessò d’essere sua, per essere consegnata interamente come un dono prezioso nelle mani degli uomini di buona volontà. E divenne così la loro vertigine.
Musica Viva, n. 8/9 – anno XII