In un referendum recentemente indetto dal Teatro Comunale per conoscere quali opere il suo pubblico desiderasse maggiormente veder rappresentate, La Gioconda di Ponchielli risultò, fra la sorpresa di molti, la più votata. Il caso volle che proprio quest’opera fosse già stata programmata per la presente stagione lirica, e che dunque quell’indicazione si offrisse inopinatamente alla verifica immediata. Il risultato è stato un trionfo di pubblico impressionante, un vero successo “”popolare””, di quelli che neppure lontanamente si sognarono, all’ultimo Maggio, non si dice La vera storia di Berio, ma meno ancora I maestri cantori di Norimberga.
Da questi fatti più d’uno fra i commentatori ha tratto pessimi auspici. Va be’, La Gioconda mancava a Firenze da trent’anni, la produzione era sulla carta eccellente; ma come spiegare un interesse così sproporzionato per quella specie di emblema delle consuetudini più viete del melodramma italiano dell’Ottocento? E per di più un successo decretato non soltanto dalle falangi dei melomani nostalgici, pronti a vibrare alle battute più efferate di Barnaba o ad accompagnare fisicamente “”Ciel e mar!”” e “”Suicidio!””, ma anche da un pubblico più neutrale, che magari ascoltava l’opera dal vivo per la prima volta?
Certo è che La Gioconda di Firenze ha unito al gusto forse davvero un po’ depravato per la riscoperta di tabù dimenticati – e dunque inconsciamente da riconsiderare se non rivalutare – il fascino intatto di un’operazione teatrale di grandissimo rilievo, che ha avuto in Sylvano Bussotti il suo artefice. Autore di regia, scene e costumi, Bussotti ha sfruttato in ugual misura il suo talento strepitoso di teatrante, capace di passare da intime, preziose raffinatezze a plateali colpi di scena, e la sua intelligenza insieme vigile e inquieta di artista, amante riamato di ogni musica.
Se il termine non fosse così screditato, sarebbe facile sbrigarsela qui con la formula di interpretazione critica (vera, però): nel senso che alla rara capacità di far venire fuori la realtà sostanziale dell’opera come essa è, senza stravolgimenti o superfetazioni, Bussotti sovrappone una attenta analisi dei meccanismi che la governano, invitando non solo a capire e reagire ma anche a riflettere. Scorre così sotto i nostri occhi una duplice Gioconda: quella di Ponchielli e Boito, nella sua grandiosa spettacolarità ottocentesca, e quella di Bussotti, che ne ridistribuisce gli effetti alla luce del proprio gusto e della propria fantasia. Il suo modo di lavorare a questo scopo è naturalmente il solito, ma perfettamente compiuto nell’occasione: alla minuziosa, quasi maniacale ricostruzione dell’ambiente originale e dell’atmosfera che musicalmente lo pervade – in questo caso Bussotti si è basato sui costumi di Edel per la prima scaligera del ’76 – subentra l’invenzione calligrafica delle scene – di cui l’ispiratore può essere tanto Carpaccio quanto Zancanaro – e ad essa la rigorosa disposizione scenica del libretto, e ad essa il taglio improvviso con squarci insospettatamente moderni, che illuminano dentro la musica situazioni aggrovigliate distillando l’eterna magia e passione del teatro, e ad essa… Insomma, Bussotti, ma di quello buono.
La compagnia di canto era stata approvata da Gianandrea Gavazzeni, che avrebbe dovuto esserne il conduttore, e tanto bastava per assicurarne la qualità. Ghena Dimitrova, protagonista a prova di bomba, non ha schiacciato, come sovente accade, i personaggi femminili di fianco, la Laura Adorno nobilissima di Alexandrina Milheva e la Cieca un po’ stanca di Mignon Dunn. Non sempre squillante ma bene “”in parte”” Giorgio Merighi quale Enzo Grimaldo; sicuro il glorioso Alvise di Agostino Ferrin, e opportunatamente meno truce del solito il generoso Barnaba di Alessandro Cassis. Orbata all’ultimo momento di Carla Fracci, la celeberrima “”Danza delle ore””, reinventata da Bussotti in uno splendido salone veneziano, ha avuto in Gabriella Cohen un’interprete all’altezza.
Mancando del quasi insostituibile apporto di Gavazzeni, che non se l’è sentita di garantire la sua presenza dopo le traversie dell’anno scorso, il Comunale ha lanciato il giovane Miguel Gomez-Martinez, già affermato all’estero: scelta rivelatasi, in considerazione dell’opera, tanto temeraria quanto vincente. Gomez-Martinez non conosce ancora i trucchi dell’immenso apparato spettacolare ottocentesco, ma ha il fiuto del vero direttore. Dall’orchestra ha cavato ottimi impasti, tenendo però a far passare la sua lettura più attraverso di essa che sostenendo e accompagnando i cantanti. Se ciò in Gioconda è pericoloso, ne guadagna l’incisività del dramma; con qualche invito non inopportuno né inutile a riconsiderare anche la qualità della partitura nel suo complesso. Forse involontariamente, la sua visione ha accentuato l’importanza di una riproposta globale dei caratteri stilistici dell’opera; e sotto questo segno si armonizzava a meraviglia con gli intenti di Bussotti. Una ciambella riuscita col buco. Dimenticavo. Io non avrei votato per La Gioconda. Son vent’anni e più che da Firenze mancano Tristano, Don Giovanni, Salome…
Il giocatore
Il giocatore di Prokofiev: uno degli spettacoli più belli visti a Firenze, e non solo là, negli ultimi anni. Merito senza dubbio di una coesione pressoché perfetta tra gli artefici della produzione. Un direttore, Eduardo Mata, accortamente scelto per la sua esperienza di direttore sinfonico, e dunque in grado di guidare le brillanti evoluzioni di una scrittura densa e caratteristica. che fa dell’orchestra la protagonista dell’opera. Una compagnia di canto costruita a mosaico, partendo per così dire dal basso (ben ventiquattro sono i comprimari), e felicemente distribuita nelle parti dei sette personaggi principali (Petkov, Suliotis, Bertocchi, Pigliucci, Jovanovic, più Daniela Dessi e Jacques Trussel nei ruoli protagonisti di Pauline e del Giocatore). Un regista, Liviu Ciulei, proveniente dal teatro e dal cinema, ma esperto d’opera e soprattutto a proprio agio nel muovere i personaggi con quella scioltezza e continuità che son necessarie in un lavoro basato sulla conversazione e sul dialogo, sulla vivacità ritmica, sull’attenzione specialissima per il côté scenico.
Ciulei sposta l’ambientazione dell’opera al tempo della sua composizione, il secondo decennio del Novecento, mezzo secolo dopo il romanzo di Dostoievsky da cui è tratto il libretto. Un lussuoso albergo in stile liberty ospita la vicenda accentuando i tratti moderni, emblematicamente internazionali, della città immaginaria di Roulettenburg, impero del gioco.
Partendo da una minuziosa fedeltà alle didascalie che definiscono il carattere dei personaggi, i loro abiti e i loro atteggiamenti, il regista ricostruisce una partitura scenica che è lo specchio esatto di quella musicale, realizzando visivamente non solo quanto è prescritto dal libretto ma anche ciò che la musica più che suggerire impone. Così facendo Ciulei sembra intendere I1 giocatore alla stregua di un dramma musicale, nel quale l’azione sia già tutta scritta nella musica e non richieda perciò altro che una traduzione dei suoni in gesti: facile a dirsi, meno a realizzarsi. Invece la chiarezza espositiva è così profonda che non una sola sfumatura del testo viene perduta e l’attenzione dello spettatore è calamitata sull’incalzante intreccio degli eventi, fino alla portentosa scena della roulette, vertice drammatico e musicale dell’intera opera, realizzata con allucinata carica espressiva. Forse per un eccesso di coerenza e di consequenzialità Ciulei forza il testo allorché impone un lungo stop alla musica per descrivere la notte d’amore trascorsa insieme dai due protagonisti prima dell’epilogo tragico: reintroducendo così un episodio presente nel romanzo di Dostoievsky ma espunto da Prokofiev nella sua riduzione a libretto, volta ad ottenere la massima concisione drammatica. Un’aggiunta tutto sommato superflua in questo contesto.
Rappresentazione di un’ossessione patologica, schizofrenica, calata sullo sfondo di una società marcescente, cinica e frenetica, Il giocatore è tutt’altro che un’opera minore, e non solo nella produzione di Prokofiev. Essa aiuta a comprendere alcune premesse del teatro musicale novecentesco, in un giovanilismo un po’ scomposto ma sinceramente impegnato a trovare nuove vie di espressione e di comunicazione. La riuscita dello spettacolo fiorentino sta nell’averci fatto capire e sentire tutto questo in modo coinvolgente, perfino attraente, cosa che di rado accade in proposte come queste. Che l’opera “”d’avanguardia”” del Novecento possa essere goduta ed apprezzata in tutta la sua sostenza, e non solo subita per dovere culturale, è un’indicazione importante scaturita da questo Giocatore soprattutto per la risposta del pubblico finalmente spontanea e calda: sicché ne resta il ricordo non soltanto di una realizzazione scenica e musicale di gran classe e puntualità, ma anche di una bella serata d’opera, gratificante ed istruttiva, di quelle da mettere accanto a una qualsiasi opera di repertorio ben data e curata nei particolari. Non provare per crederci, ma crederci per provare, questa è la ricetta.
Musica Viva, n. 2 – anno XI