Nella storia della musica dell’Ottocento la figura di Liszt può essere paragonata a una montagna che chiude una catena di cime altissime e nettamente profilate, nelle quali noi riconosciamo con chiarezza i grandi autori dell’epoca classica e romantica. La montagna Liszt, con i suoi contrafforti, si erge invece indistinta, avvolta da nubi che non lasciano intravvedere la cima: su di essa gettiamo appena l’occhio, e ci pare di conoscerla già, di averla scalata una volta con fatica e senza troppa soddisfazione. Non vi si posa il sole che illumina e riscalda le altre cime. Dalle sue aspre gole ritraiamo perciò lo sguardo. Così non ci accorgiamo che da quella vetta discende in realtà un altro versante, a noi sconosciuto, e che ciò che noi crediamo di contemplare è soltanto un’immagine, superficiale e di facciata, della figura che ci sta davanti. Quest’altro versante è quello che racchiude la modernità di Liszt.
La metafora della montagna e delle cime è un luogo comune della critica musicale romantica, inaugurato da Schumann e proseguito da molti altri. Qusta metafora può essere assunta come esempio di un tipo di ricezione che ha fortemente pesato sulla fortuna critica di Liszt, musicista eclettico che non ha mai goduto – neppure negli anni della sua sfolgorante carriera di virtuoso del pianoforte – di incondizionati e durevoli apprezzamenti. Il riconoscimento di Liszt come compositore fu ostacolato, oltre che dal confronto con i massimi compositori della sua epoca, dalla stessa enorme mole delle opere da lui prodotte nei generi più diversi nell’arco di una lunga vita: una vita che si estende dall’ultima fase dell’età classica lungo il romanticismo fino al tardo romanticismo e al decadentismo. Le ragioni di questa situazione sono molteplici e costituiscono, nella loro problematicità, uno dei capitoli più affascinanti della recente storiografia musicale. In esso si intrecciano infatti in un groviglio quasi inestricabile elementi della biografia e dell’arte, dell’interpretazione e della creazione, della religione e della politica, della società e del costume: elementi che si rispecchiano tutti nella personalità di Liszt facendone già un protagonista, tanto grandioso quanto sfuggente, del suo secolo, l’Ottocento. L’immagine di Liszt riflette anzitutto questo carattere sfuggente della sua personalità. Curiosamente egli, che fu uno dei massimi creatori del romanticismo musicale e il primo a riconoscere la statura e l’originalità di Berlioz e Wagner, di Chopin e Schumann, venne retrocesso in seconda fila e non fu stimato del tutto degno del puro titolo di romantico. Senza dubbio gli nocque la mancanza di un tratto distintivo e unitario sulla cui base fissare inalterabilmente la sua immagine; quale era stato per Wagner la testarda ostinazione nel perseguire la mèta unica e assoluta del dramma musicale, o per Chopin la lirica intimità di un pianismo profondamente espressivo, o per Schumann la ricerca d’infinito stravolta nella follia: una lucida follia tanto emblematica da spiegarne e farne apprezzare anche le “”imperfezioni””. Musicista eccentrico e inafferrabile, apparentemente privo d’identità, Liszt fu frainteso perfino da Wagner, che pure tanto gli doveva, il quale gli rimproverò appunto la mancanza di un’identità stilistica e anche un atteggiamento da commediante nei confronti del pubblico; ma anche coloro che tendevano a ripristinare i valori del classicismo – come Brahms e la sua cerchia – lo sentirono come un nemico. Così Liszt rimase in bilico anche nel giudizio dei posteri: guardato con sospetto dai custodi del culto romantico, subì l’ostracismo dei neoclassici, i quali gli imputavano il titanismo vuoto di una musica fatta più di apparenze che di sostanza. Né potè essere accolto senza riserve fra i precursori dell’avanguardia, dato che era in lui del tutto assente l’atteggiamento distruttivo, negativo, tipico di quei movimenti del Novecento. Al contrario, Liszt fu musicista positivo, della concretezza e della praticità; ma anche, e nello stesso tempo, dell’utopia e dell’incompiuitezza. Come spiegare queste contraddizioni? E possibile avanzare un’ipotesi che spieghi la fortuna critica di Liszt non soltanto con la sostanza della sua opera ma anche con il carattere e il significato più globale della sua personalità. Che cosa ha rappresentato Liszt nell’Ottocento? Che cosa rappresenta oggi per noi? La risposta a queste domande può stare in quel concetto di modernità che costituisce l’altro versante, invisibile a prima vista, della sua poliedrica e sfuggente figura.
Se modernità significa anzitutto innovazione, anticipazione del futuro, scoperta di nuove possibilità espressive, linguistiche e formali, Liszt è nella sua epoca il prototipo dell’artista moderno, un vero e proprio genio dell’anticipazione. L’elenco dei motivi che lo rendono tale è lunghissimo e abbraccia tutti i campi dell’arte musicale. Liszt è il creatore di un nuovo linguaggio pianistico che rivoluziona la tecnica strumentale e raggiunge la totalità delle risorse espressive: grazie a lui il pianoforte diviene uno strumento capace delle più sottili e complesse combinazioni e trasformazioni, in una autonomia che rasenta l’onnipotenza. Questa rivoluzione si realizza soprattutto nella nuova concezione del suono pianistico, che riunisce le prerogative più diverse della forza e della agibilità, della cantabilità e della brillantezza, del virtuosismo e della ornamentazione: scopo di Liszt è trarre dal pianoforte tutto il possibile, con l’impiego di ogni mezzo, ricreando sul pianoforte anche i colori della voce e i timbri dell’orchestra.
La sua ricerca si estende anche al linguaggio più propriamente compositivo, da un lato armonico, dall’altro formale. Le intuizioni e le anticipazioni di Liszt sul terreno dell’armonia e della sintassi tonale furono però notate e riconosciute soltanto perché altri – Chopin, Wagner – le avevano assimilate, sviluppandole organicamente nel proprio stile: solo in questa luce le profezie di Liszt apparvero lungimiranti ed esatte. Ancor più misconosciuta e controversa fu la sua importanza come creatore di nuove forme, in ambito pianistico e sinfonico. Per lungo tempo Liszt fu accusato di mancanza di forma: si individuò un suo difetto estetico nell’indisciplinato e rapsodico abbandonarsi all’estro dell’improvvisazione, per quanto opere come la Sonata in si minore o i grandi cicli pianistici (a cominciare dagli Studi trascendentali e da quelli da Paganini) rivelino una costruzione formale di un rigore assoluto. Le stesse esperienze tecniche risultano finalizzate alla utilizzazione formale, tanto per esempio da assumere il timbro come parametro della composizione. Inoltre queste forme musicali, che interpretano liberamente le convenzioni dello stile classico, precorrono una delle più importanti conquiste della musica romantica e moderna: la disposizione ciclica e narrativa intessuta non soltanto di profonde relazioni compositive ma anche di pregnanti associazioni psicologiche, emotive, sentimentali e ideali, assai più di rado semplicemente descrittive. Così nei poemi sinfonici Liszt sviluppa tutta una tendenza che, incarnandosi nella musica a programma, accrescerà il contenuto poetico e letterario delle suggestioni sonore e inciderà profondamente sulle sorti della “”musica dell’avvenire””.
Anche come esecutore Liszt anticipa la figura dell’interprete moderno. Fu il primo pianista a suonare a memoria; il primo a imporre i concerti per solo pianoforte e i programmi monografici, dedicati a un solo autore: e si trattava di autori non sempre popolari in quel tempo, come Beethoven (anche quello tardo della Hammerklaviersonate) o Schumann. Quando, abbandonata la carriera del concertista, Liszt si dedicò alla direzione d’orchestra, non soltanto fece di Weimar un modello di teatro di repertorio tedesco, moderno e aperto al nuovo (Berlioz e soprattutto Wagner in testa), ma impose anche l’arte della concertazione concepita modernamente: se non le inventò, certo fu il primo ad adottare sistematicamente le prove a sezioni d’orchestra. E potremmo continuare esaminando altri aspetti dell’attività di Liszt: il didatta, fondatore di una scuola pianistica di altissimo livello; il critico, fantasioso e pungente nella sua florida sensibilità; lo studioso della musica popolare ungherese e delle melodie tzigane; e infine, tornando al campo della composizione, il Liszt strumentatore raffinato e grandioso orchestratore, inventore di effetti (anche nella commistione di stili del passato, per esempio nella musica sacra) che avrebbero comunque lasciato il segno.
L’immagine storicamente consolidata di Liszt registra questi fatti con noncurante indifferenza. Liszt rimane quasi esclusivamente il campione di un virtuosismo pianistico dalle dimensioni monumentali e dallo stile eterogeneo, incapace di attingere la solare perfezione della pura arte attraverso una profonda interiorità. La superficialità di questa immagine si spinge fino all’assurdo di rimproverare a Liszt il fatto stesso di avere reso il pianoforte uno
strumento onnipotente e di avere spinto il fattore tecnico fino all’estremo limite dell’efficienza. Un’arte che si materializza senza resti nella tecnica non è, secondo l’estetica romantica e dell’idealismo spiritualista, vera arte. Ma anche il modo in cui Liszt intende il rapporto fra arte e tecnica, centrale nella sua personalità, sottintende valori che non possono essere sbrigativamente ridotti alla constatazione apodittica di una mancanza di sostanza e di un difetto estetico. Giacché Liszt, come Berlioz, il musicista dell’Ottocento a lui affine, non manca affatto di requisiti estetici; solo che i suoi sono i princìpi di un’estetica della modernità, in anticipo sui tempi e forze anche estranea al tempo della sua presenza storica.
Ciò che in Listz appare moderno – l’estetica della sua modernità – non si esaurisce nella quantità delle innovazioni, delle anticipazioni e delle scoperte, ma si estende anche al comportamento e alla vita, e di qui si rispecchia nell’arte. Il carattere fondamentale della personalità di Liszt è l’irrequietudine; il suo mezzo di espressione e di liberazione è il trasformismo.
La vita di Liszt è un’avventura talmente ricca di colpi di scena e di contraddizioni da poter essere rappresentata in modo adeguato solo con i mezzi del romanzo moderno e forse, nei suoi aspetti più plateali e vistosi, dal cinema e dalla televisione. Gli elementi spettacolari della sua biografia si intrecciano in una trama che assume via via i tratti della tragedia e della commedia, della
farsa e della “”moralità””. Questa trama è però soprattutto ricca di risvolti psicologici, di motivazioni latenti e di gesti dai significati tanto più ambigui quanto più sono esibiti. Questi atteggiamenti sono dettati senza dubbio da esigenze interiori, ma presuppongono anche una vasta platea di spettatori e derivano dalla nevrotica necessità di porsi di fronte al mondo come protagonista, come pubblica vedette. Liszt ha bisogno di un pubblico da impressionare e da scandalizzare: ma ciò non gli basta, e ogni volta che questo pubblico crede di averlo afferrato e posseduto, egli svela l’inganno e si nega all’identificazione. Il trasformismo di Liszt è certamente un modo per tener vivo l’interesse, per rinnovare e rilanciare la propria immagine di artista: il mito romantico dell’artista comincia a trasformarsi nel compiacimento esibizionistico dell’intellettuale decadente dal vivere inimitabile. Ma è anche il sintomo di profondi contrasti, di laceranti incertezze, sintomo evidente nei continui mascheramenti che nascondono un’inappagata ansia di armonia interiore.
Nella sua giovinezza Liszt è un divo, una star proprio nel senso più moderno e attuale del termine, inaugurato nella generazione precedente da Paganini. Amplificate sul modello di lui, le sue esibizioni “”diaboliche”” al pianoforte tendono a dominare con la meraviglia un uditorio eterogeneo, che ha le dimensioni e le reazioni di un pubblico di massa. Liszt avverte che il pubblico deve essere corteggiato, ma mai completamente appagato: questa modernissima intuizione di psicologia di massa lo eleva in breve tempo a mito, oggetto di fanatismo e per contro magari di odio. A poco a poco però Liszt cerca di avvicinare il pubblico a un tipo di ascolto, sfruttando le doti della bravura e della spettacolarità per comunicare anche i contenuti della nuova arte romantica. E qui la sua opera di interprete si salda con quella del compositore, alzando sempre più il tono delle ricerche e delle pretese.
Già durante questa fase Liszt mostra una particolare attitudine al trasformismo. Veste gli abiti del pellegrino alla ricerca di una fede ancora incerta e quelli del voyageur, di cui poi fa materia compositiva (Harmonies poétiques et religieuses, Années de pèlerinage). E protagonista di avventure erotiche accortamente pubblicizzate, che sono argomento di discussione nei salotti di mezza Europa; ma anche di travolgenti amori che aspirano alla purezza spirituale e alla fedeltà eterna, persino alla mortificazione della carne. Durante i moti del luglio 1830 Liszt simpatizza con gli insorti e si atteggia a “”intellettuale di sinistra””, senza tuttavia troncare le relazioni con la nobiltà e con le famiglie più in vista della borghesia. la rivoluzione del ’48 lo vedrà saldamente arroccato su posizioni nettamente conservatrici. Dopo la decisione improvvisa di abbandonare la carriera concertistica nel 1847, Liszt si ritira a Weimar e crea nella città di Goethe e di Schiller un centro di irradiazione della cultura e dell’arte, che gli attira in breve tempo nuove relazioni e nuove simpatie, principalmente con i compositori della sua generazione. Da protetto, Liszt diviene ora anche un protettore, precursore della figura dell’odierno “”operatore culturale””.
Ma la svolta più eclatante e sorprendente deve ancora venire. Nel 1865, Liszt veste gli abiti talari e si fa abate. La rinuncia al mondo e il rifugio nella fede avvengono ancora una vota con un atto spettacolare e dimostrativo. E il colpo di scena conclusivo di una vita romanzesca. Gli ultimi anni della vita di Liszt ripropongono, come in una ricapitolazione ciclica, le fasi alterne di questo percorso, in una amara ma dignitosa uscita di scena, per assumere i tratti di una sublimazione come figura veneranda au dessus des mêlées. Nella quale tuttavia l’arte di Liszt, dopo l’epoca giovanile delle innovazioni e delle anticipazioni, si apre alla meditazione e al raccoglimento e appare non soltanto matura ma anche nuovamente, straordinariamente profetica.
Ciò che vi è di moderno in Liszt – e qui “”moderno”” va inteso proprio nel senso più ampio di qualcosa che anticipa le caratteristiche della civiltà e della cultura moderna, quella del nostro secolo – è la dispersione dei valori, la caduta delle certezze, l’insoddisfazione perenne di ogni conquista. Essa non conduce però alla rinuncia, bensì moltiplica la ricerca di una identità nel radicalizzarsi dei contrasti e delle opposizioni, alla cui radice si trova la nostalgia di una perduta unità originaria degli istinti e della ragione. In ciò Liszt è non soltanto un innovatore della composizione musicale ma anche un antesignano della crisi e della tematica stessa dell’artista e dell’uomo moderno.
La fiducia illimitata nella tecnica, nella onnipotenza dello strumento che deve realizzare e fissare l’immagine musicale, sia esso il pianoforte o l’orchestra, compensa la perdita dell’immediatezza e della unicità della creazione artistica originale: Liszt anticipa l’epoca moderna della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte teorizzata da Benjamin, e non soltanto nelle trascrizioni, nelle parafrasi, nelle rielaborazioni e negli arrangiamenti di musiche altrui. La capacità di riprodurre ed elaborare sul pianoforte qualsiasi immagine musicale di un’idea o di uno stile (Wagner come Meyerbeer, Rossini come Verdi, una canzone popolare come un inno di chiesa) sottintende anche un significato allegorico: Liszt vuole mettere alla prova se stesso come compositore, proseguire e potenziare riproducendola la strada che altri hanno già compiuto per loro conto. Nella sua smisurata ambizione, il modo di intendere il programma poetico nei poemi sinfonici conferma il significato allegorico del linguaggio lisztiano, che procede per sintesi di simboli contrastanti. Ciò diviene evidente al massimo grado nei lavori sinfonici di maggiore impegno,-come la Faust– e la Dante-Symphonie.
Nella maggior parte delle opere pianistiche di Liszt (fanno eccezione creazioni particolarmente ambiziose come la Sonata o certi pezzi del tardo stile) la sostanza musicale fondamentale è relativamente semplice: essa è costituita per lo più da un motivo o da una successione armonica di elementare pregnanza, sui quali si dispone poi un rivestimento di ornamentazioni, fioriture, estese ramificazioni melodiche ed elaborazioni strumentali. A Liszt non interessa tanto uno sviluppo in senso beethoveniano dell’idea originaria, quanto la magia delle figurazioni e delle caratterizzazioni strumentali che trasformano la sostanza musicale in sempre nuove, variate realizzazioni e apparizioni.
E significativo che nessun musicista abbia mostrato al pari di Liszt la tendenza a ritornare sul lavoro già fatto per migliorarlo e chiarirlo. Le sue opere sono costellate di varianti, di “”ossia””, in stesure alternative spesso ancl profondamente diverse fra loro. Sostituendosi alla versione unica e definitiva, esse rivelano l’aspirazione al continuo, infinito perfezionamento, un’ansia inestinguibile e utopica di fissare la forma più adeguata e brillante di comunicazione.
Ma quel che si vuol comunicare è un fatto artistico che trova il suo modello platonicamente, in un'””idea”” comunque non esattamente riproducibile nell’esperienza concreta: l’onnipotenza della riproduzione nasconde l’impossibilità di cogliere l’essenza dell’idea. (Questo aspetto viene ripreso e continuato nel Novecento da Busoni, il primo interprete “”colto”” delle trascrizioni di Liszt). Una ulteriore conseguenza di questo atteggiamento si ha nel fatto che lo stile musicale di Liszt, superando le barriere delle identità nazionali, tende sempre più ad assumere le caratteristiche di uno stile sovranazionale e cosmopolita, anche nel passaggio di un forma musicale all’altra. I tratti biografici individuali si saldano così ancora una volta con i caratteri artistici: il pellegrinaggio esistenziale di Liszt e il suo inquieto cosmopolitismo si rispecchiano nel peregrinare della sua opera da un genere all’altro, da una ornamentazione all’altra, toccando tutti gli stili e i mezzi di espressione, per raggiungere infine una dimensione internazionale, riassuntiva di tutta un’età, allora sconosciuta alla musica e all’opera di un singolo autore ma ben familiare alla nostra epoca. Anche questo è un aspetto della sua modernità, che lo rende attuale ai nostri occhi.
Non è possibile capire veramente Liszt senza considerare il suo ultimo periodo, la sua tarda opera e il suo tardo stile. L’assottigliarsi delle proporzioni e dei mezzi, la ricerca di un’essenza musicale che sembra tendere al silenzio e alla rivelazione mistica del puro suono interiore, spoglio e prosciugato, ribaltano l’immagine che Liszt aveva dato di sé fino a quel momento. I colori accesi, le trascinanti impennate e gli slanci visionari addensati in vertiginose strutture sonore lasciano il posto a spettrali evocazioni di emozioni e di ricordi lontani, larve di un mondo che il compositore non può raccogliere se non in modo decantato e stilizzato, ma che pure appaiono in tutta la loro tremenda forza simbolica: Nuages gris, La lugubre gondola, Sulla tomba di Richard Wagner, Abschied, En réve, Recueillement, Unstern, sono gli aforismi di una rivelazione estrema che cessa persino d’interrogarsi sulla realtà del mondo circostante. In punto di morte, Liszt sembra rendersi conto del fallimento delle sue aspirazioni alla “”totalità””, e della vanità dei suoi geniali trasformismi. Da questa comprensione emerge finalmente un atteggiamento pacificato e sorridente verso il mondo e la vita: se tutto altro non è che una gigantesca, grottesca danza macabra, da questa consapevolezza promana una dolcezza intima e penetrante. L’ultima, emblematica pagina di Liszt è una Bagatella senza tonalità, un ritorno all’infanzia e alla primitività, che si arresta su un accordo di settima diminuita lasciando la porta virtualmente aperta verso l’infinito e l’incognito. Commenterà Ferruccio Busoni: “”La primitività di colui che crea e dà forma è di due specie: prima di aver imparato a riempire e dopo aver imparato ad omettere””.
Tutto ciò che vi è di moderno in Liszt può essere visto alla luce di questa estrema trasfigurazione e acquistare così un senso quasi inedito. In una pagina famosa, Charles Baudelaire affermava che la modernità non è che la metà dell’arte: “”l’autre moitié””, egli scrive, “”est l’eternel et l’immuable””. Se la modernità di Liszt anticipa e chiarisce sotto molti aspetti le tendenze, gli squilibri e le contraddizioni della nostra epoca, questa seconda metà misteriosa e forse non ancora estratta lo eleva alla dignità delle arti antiche, fra i “”classici”” senza limitazioni di spazio e di tempo. La sua opera, che aspira dapprima a colmare l’angoscia trasformando l’eternamente mutabile e perfettibile, si concentra da ultimo sulla sostanza eterna e immutabile. Ed è proprio perciò che la cima della montagna Liszt costituisce un passaggio obbligato della storia della musica del recente passato, verso il nostro secolo: a centosettantacinque anni di distanza dalla nascita e a cento dalla morte del compositore, noi siamo in grado di rendercene conto con chiarezza.
Musica Viva, n. 10 – anno X