Wagner a strisce

W

L’opera con didascalie: esperimento inedito per l’Italia tentato ora al Maggio Musicale Fiorentino per I Maestri Cantori di Norimberga. Ma è sufficiente la semplice traduzione del testo?

Ho riscritto in italiano la sceneggiatura dei Maestri cantori di Norimberga. Bravo!, direte voi, e ce lo vieni anche a raccontare? Un momento. Mica l’ho fatto per nulla. Anzi, in primo luogo dovrebbe servire (senza offesa) proprio a voi; o meglio, modestamente, a noi tutti. In che modo? Lasciate che ve lo spieghi dall’inizio.

Dunque. Quest’anno, fra poco, al Maggio Musicale Fiorentino, festival prestigioso e un po’ inquieto, si rappresentano I maestri cantori di Norimberga di Wagner. E un’opera mastodontica, atipica nella stessa produzione di Wagner: una commedia satirica e sentimentale insieme, orgogliosa e pungente, venata però anche di malinconia e di struggente sensualità. E l’opera di Wagner che i tedeschi più amano e sentono propria, perché parla delle loro tradizioni, delle loro aspirazioni e contraddizioni in modo affettuoso, serio e faceto; ma anche, come si conviene, rituale e pretenzioso (un tempo, ahimè, anche esaltato). In temi come il rapporto fra arte e popolo, conservazione e innovazione, stabilità e rischio, anelito e rinuncia, così come Wagner li raffigura nei suoi personaggi – Eva e Walther von Stolzing, Sachs e Beckmesser, Pogner e David, fino alla voce ammonitrice del Guardiano Notturno -, essi riconoscono una parte della loro storia e della loro identità, tanto passata quanto presente: I maestri cantori di Norimberga sono l’opera nazionale tedesca per eccellenza, il compendio elevato a forma d’arte di una cultura e di una civiltà.

Da noi in Italia I maestri cantori di Norimberga sono l’opera meno rappresentata fra i grandi capolavori di Wagner e, in ragione dei motivi suddetti, la più ostica e incompresa. Non fraintendetemi: non parlo di incomprensione dei valori della musica, delle qualità generali della partitura, dei significati e dei nodi dello svolgimento drammatico-musicale; sebbene dei meccanismi specifici e dei sottili equilibri che legano il momento drammatico a quello poetico e musicale, nell’attimo stesso della rappresentazione. I maestri cantori di Norimberga sono non soltanto un’opera nella quale il dialogo è costantemente importante e preminente, al punto da condizionare la stessa struttura compositiva, ma anche una vera e propria “”opera di conversazione””, con le caratteristiche di una pièce parlata, trasfigurata in atmosfere musicali grandiose. Non è un caso che Wagner insistesse, mai come per questa opera, sulla chiarezza della dizione e sulla intelligibilità del testo, spronando i cantanti a emettere ogni sillaba come se stessero recitando. I grandi momenti lirici, le scene d’insieme compatte seppur polifonicamente assai elaborate (che cadono, non per caso, alla conclusione di ognuno dei tre anni, come punto di arrivo e di scioglimento delle tensioni accumulate in precedenza), gli stessi poderosi squarci sinfonici che costellano la partitura, sono il risultato e la deflagrazione di situazioni drammaturgiche preparate attraverso dialoghi o estesi monologhi, racchiusi tutti nel tono dello stile di conversazione: senza contare che per tre quarti dell’opera apertamente si discute e si dibatte su temi di natura estetica, di regole, norme e convenienze cui uniformarsi o meno, in assenza pressoché totale di un’azione propriamente detta. Se la stretta compenetrazione di parola e musica è caratteristica essenziale del linguaggio drammatico-musicale di Wagner, nei Maestri cantori l’incidenza dell’elemento poetico – avvertibile anche nella ricercatezza e nella sintesi stilistica del “”libretto”” – è quanto mai rilevante, sì da far spesso premio sulla musica stessa.

Tutto ciò determina in primo luogo le scelte interpretative. La cosiddetta vecchia scuola dell’interpretazione wagneriana – fino a Knappertsbusch, Furtwängler e il giovane Karajan – ha lasciato testimonianza illuminanti di questo modo di eseguire i Maestri cantori puntando sulla evidenza dello stile di conversazione: e lo stesso Toscanini, che pure passava per essere un direttore di fulminante concisione drammatica, nei Maestri cantori si uniformava a questa tradizione senza insofferenze; accentuando semmai, e in modo geniale, gli scatti isterici del corporativismo mummificato, gli spunti comici e satirici più taglienti: i quali peraltro, proprio per funzionare adeguatamente, debbono essere collocati anch’essi al giusto posto nel ritmo teatrale e fatti risaltare sincronizzando e sottolineando le battute, i giochi di botta e risposta, in modo tale da permetterci di seguirli in presa diretta.

La comprensione chiara e distinta del testo è dunque requisito fondamentale per l’ascolto dal vivo di un’opera a suo modo speciale come i Maestri cantori di Norimberga, povera di azione e di situazioni drammatiche di per sé evidenti, almeno nel senso tradizionale del termine. Ove l’esecuzione sia all’altezza, abbia cioè l’attezione richiesta, ciò è possibile soltanto a chi conosca la lingua tedesca. Su questo punto vorrei sgombrare il campo dagli equivoci, onestamente: non bastano la lettura preventiva del libretto con testo originale a fronte, né al limite la fatica di impararlo a memoria, e tanto meno la semplice conoscenza della trama, degli eventi, del riassunto come ce lo fornisce il programma di sala o la guida all’opera. Su queste basi l’ascolto – ripeto, dal vivo, che è poi quello che conta – potrà essere stimolante, anche appagante, sensibile ai valori della musica, ma non potrà mai essere completo e profondo. Anzi, rettifico, veramente partecipe. Non per nulla, c’è gente che ha imparato il tedesco solo per poter capire fino in fondo Wagner (il quale, a sua volta, soffrì le pene dell’inferno per impadronirsi dell’inglese, al solo scopo di leggere Shakespeare nella lingua originale). Ma questa non è impresa che si possa richiedere a tutti, o imporre per legge; non almeno quale condizione per l’acquisto di un biglietto per assistere ai Maestri cantori di Norimberga.

Un tempo c’era l’abitudine di eseguire Wagner in italiano. Le traduzioni erano orrende, ma la cosa in qualche misura funzionava. Wagner divenne un autore “”popolare”” anche in Italia: era erano tempi di acceso nazionalismo, dove dire di amare Wagner equivaleva a riconoscere di odiare Verdi, anche se non era vero. Capitava però anche di sentir canticchiare la canzone del premio di Walther von Stolzing su queste parole: “”Dell’alba tinto nel roseo chiaror, / ripieno dei fior, ai molli odor, / di voluttà giammai sognate, / m’invita un bel giardin!””; o il buon Sachs lamentarsi della sua sorte così: “”Acciabatar è dunque il mio destin, / e notte e dì degg’io fine al rude mio mestier!””. Pensate un po’ se lo Zanardini, gran traduttor dei traduttor di Wagner, fosse giunto a tiro di Beckmesser! Ad ogni buon conto, la cosa, dicevo, funzionava: perché Wagner, seppur stravolto nelle parole, “”entrava”” nella coscienza dei frequentatori d’opera, veniva fatto “”proprio”” superando la barriera invalicabile della lingua.

Oggi qualcosa del genere non sarebbe neppure concepibile. E a ragione, s’intende. Eppure, in questi ultimi anni, si è diffusa anche da noi la tendenza a tradurre i libretti di certe opere straniere in versione ritmica italiana, con criteri assai più rigorosi e responsabili: da queste esecuzioni la nostra cultura musicale ha tratto, indubbiamente, molto profitto. Ma ci si provassero, i D’Amico e gli Arruga, a tradurre nuovamente in italiano Wagner! Sarebbero scomunicati, e forse linciati dalla folla inferocita. I più feroci sarebbero certo quelli che assistono alle opere del Maestro in religiosa concentrazione, come a un rito, forti della conoscenza della tabella dei Leitmotive e sensibili alla “”problematica””; anche se poi, di quel che si dice e canta sulla scena, materialmente non capiscono un’acca. Vi diranno che non è importante capire le parole.

Ma Wagner ha passato una vita a spiegare quanto siano importanti.

Ma voi, che oltre a non capire un’acca non sapete neppure le tabelle e le problematiche (come il nostro Walther von Stolzing, per l’appunto), vi sentirete lo stesso a disagio e un po’ estranei: mentre a teatro si dovrebbe andare come a una festa o a un giuoco irripetibili, ai quali si è disposti a partecipare dando una parte di sé – la migliore, sovente -, da protagonisti, per vincere o per perdere (come il nostro Walther o il nostro caro Sachs, per l’appunto). E allora dobbiamo capire tutte le regole della festa o del gioco, lì per lì, mentre ci partecipiamo. Capire che cosa accade, per scegliere noi soli come reagire, istintivamente, emotivamente, consapevolmente. Comunque, questo aiuto non ci potrà più essere dato da una esecuzione in lingua italiana delle opere di Wagner: anche ammesso e non concesso che qualcuno si provasse a rompere l’intoccabile, magico equilibrio fra lingua poetica e rivestimento musicale – quella simbiosi perfetta che fa di Wagner l’unico vero poeta-musicista della storia dell’opera -, non si troverebbero i cantanti adatti e disposti a studiare Wagner in italiano. E questo taglia la testa al toro.

Nasce così l’esperimento di Firenze. L’esecuzione dei Maestri cantori di Norimberga al Maggio Musicale, con una bellissima compagnia di canto tedesca, un regista e uno scenografo tedeschi, sarà accompagnata dalla proiezione su uno schermo sovrastante il palcoscenico di “”sopratitoli”” in lingua italiana. Il pubblico potrà così seguire l’azione scenica e musicale leggendo contemporaneamente il testo di Wagner in traduzione italiana, sotto forma di didascalie sincronizzate con il canto e con lo svolzersi della vicenda.

E la prima volta che in Italia si tenta un esperimento di questo genere. Fuori d’Italia, soprattutto in America e in Giappone, un tale procedimento è ormai abbastanza diffuso e pare che abbia dato buoni risultati. Che ciò avvenga da noi per la prima volta al Maggio Musicale Fiorentino, mi sembra degno delle tradizioni di un festival da sempre aperto alle novità e un po’ anche alle “”provocazioni””.

L’idea è stata, più che caldeggiata, letteralmente imposta da Zubin Mehta, che oltre a dirigere i Maestri cantori ha assunto la responsabilità artistica del Maggio ’86. Mehta, forte delle sue stesse precedenti esperienze, crede fortissimamente, da musicista e uomo di teatro pratico, nell’utilità di questa iniziativa volta a fornire al pubblico che assisterà alla rappresentazione uno strumento in più per la comprensione di un’opera senza dubbio imponente (anche come durata) e complessa. Il suo entusiasmo ha finito per contagiare tutti quelli che sono stati coinvolti nella realizzazione di un’impresa non facile e rischiosa sotto l’aspetto sia tecnico sia artistico.

A me è toccato il compito di approntare i materiali destinati a essere proiettati come “”sopratitoli””. Non si trattava soltanto di preparare una nuova traduzione adatta allo scopo, del tutto diversa cioè da una versione ritmica per il canto, ma soprattutto di adattare il testo alle condizioni specifiche della sua utilizzazione in teatro: e ciò significava ripensare in italiano la sceneggiatura e rimaneggiarla in una serie progressiva di didascalie.

Il problema in effetti non è semplice. Scartate, anche per motivi tecnici, le due soluzioni per così dire cinematografiche – quella dei sottotitoli continui, impossibile da montare in una esecuzione musicale dal vivo, e quella degli “”stacchi”” tipo film muto, che avrebbe distrutto la sincronia con l’azione e la musica, si è dovuto scegliere un adattamento del testo che chiarisse lo svolgimento della vicenda contemporaneamente al suo evolversi, mentre cioè le parole vengono cantate, ma tenendo anche conto delle esigenze di una lettura che non distogliesse troppo l’attenzione dalla scena e dalla musica. Leggere una didascalia proiettata sulla scena – anche ove si creino le condizioni ottimali da ogni settore del teatro, e in questo il Comunale di Firenze non è d’aiuto – comporta un tempo superiore a quello reale del canto: senza contare che ogni didascalia può contenere una porzione di testo molto limitata e che il passaggio da una didascalia all’altra (in totale esse assommano a circa cinquecento) provoca uno scarto non sempre armonizzabile con la continuità del ritmo drammatico-musicale. Si imponeva perciò una inevitabile riduzione del  testo, operata sulla scorta dei tempi della musica, e in relazione ad essa.

Una operazione di questo genere può essere giustificata e risultare utile soltanto se entra a far parte, in modo vivo, della rappresentazione: se diviene cioè un elemento scenico e un momento non estraneo alla rappresentazione. Tecnicamente, si tratta di un effetto di luce: solo che questo effetto di luce visualizza ciò che i personaggi dicono e fanno sulla scena. Idealmente, un’informazione di questo tipo dovrebbe uscire dallo schermo e fondersi con la scena, e ancor più, in un tutt’uno, con la regia.

La stretta compenetrazione di parole e musica propria del linguaggio wagneriano, se da un lato – come si è detto – richiede la comprensione di ogni particolare del testo, dall’altro lato si basa su un equilibrio che nel nostro caso doveva essere tradotto ad esplicitato. La prima, dolorosa rinuncia riguarda la qualità letteraria, altissima e specialissima nelle sue infinite sottigliezze, del testo originale: del quale si imponeva però di mantere almeno una sensazione nei momenti topici, come la riunione della corporazione dei maestri cantori nel primo atto e la gara di canto nel terzo. Qui la parodia s’innalza a fattore determinante della composizione: non basta capire ciò che accade, ma come accada. La funzione della didascalia deve andare allora al di là della lettera del testo e cercare di coglierne lo spirito, oltre a definire la situazione drammatica: per esempio nella lezione di David o nella solenne enunciazione delle regole austere della Tabulatura. Qui essere didascalici significherebbe risultare banalmente pedanti.

Se nelle scene di dialogo e di conversazione è relativamente agevole uniformarsi al ritmo serrato degli scambi di battute – e di sicuro ne risulterà avvantaggiata la comprensione dei lati comici e satirici così importanti in quest’opera, e davvero legati alla coscienza del testo poetico in rapporto al meccanismo stringente dell’azione -, scelte ancora una volta drastiche s’ingiungevano nelle parti d’insieme, in quelle liriche e nei monologhi, a cominciare dal celebre soliloquio di Sachs sulla follia. In questi passi è la musica, sotto forma di linguaggio sinfonico emergente dall’orchestra e di per sé parlante, a venire in primo piano e ad accentrare su di sé l’attenzione: si è deciso perciò di ridurre le didascalie al minimo indispensabile, quasi facendone un’eco assottigliato della musica. Non so se la cosa funzionerà, ma in questi casi lo spettatore dovrebbe avvertire – come accade in un’aria – il carattere specifico della situazione drammatica e abbanbonarsi all’espressione musicale; che si concentra, più che sulle parole, sulla connessione delle figure tematiche nell’elaborazione sinfonica. Mi sembra essenziale insistere sull’importanza del rispetto della funzione della musica, che in Wagner e nei Maestri cantori assomma su di sé spesso e volentieri anche valori poetici e drammaturgici; penso per esempio alla baruffa del secondo atto e alle grandi scene corali del primo e del terzo. Qui si affaccia semmai un altro tipo di problemi. Quando, dopo l’ouverture, si apre il sipario, i fedeli riuniti in chiesa intonano il corale del Battesimo. Ogni ascoltatore tedesco lo riconoscerà all’istante, e sarà informato che siamo alla funzione che precede la festa di San Giovanni: coglierà così immediatamente un dato d’ambiente essenziale nella cornice dell’opera. Se io traduco semplicemente le parole del corale, non ottengo affatto la stessa situazione di partenza. Lo stesso accade nel terzo atto, quando, all’arrivo di Sachs, il popolo intona a una voce e in suo onore l’inno della Riforma da lui stesso composto. Ancora una volta, la semplice traduzione del testo non sortirà il medesimo effetto, che è quello di renderci partecipi dell’amore popolare verso Sachs, con quelle parole e con quell’inno, e di anticipare perché Sachs avrà la forza di imporre il trionfo di Walther.

Non so ancora con esattezza come risolveremo questi problemi. Su un punto sono però deciso: la canzone del premio di Walther, e forse anche quella dell’emancipazione del primo atto, saranno cantate senza sovrimpressione di didascalie. Non mi sembra ammissibile rompere l’incanto di questi momenti magici e culminanti; tanto più che una serie di didascalie nulla aggiungerebbe alla comprensione del fatto. Sappiamo come Walther dovrebbe cantare, secondo le convenzioni dei maestri, per meritare il titolo; e gli altri, poi, commentandone il canto, ce lo ripeteranno di nuovo. In quel momento Walther deve essere lasciato solo, a tu per tu anche con noi ascoltatori, e inventare la sua canzone così intrisa di sentimento poetico e di purezza melodica senza essere parafrasato. Dirà più tardi Sachs di quel canto: «Lo sento e non lo posso capire… D’altronde, come vorrei anche comprendere quel che mi parve incommensurabile?””. Quel canto lo dobbiamo dunque ascoltare così come sgorga, nella ardita fusione di poesia e musica, dall’animo estasiato di Walther. Non è questione di lingua, di tedesco o di italiano.

Il nostro lavoro sui Maestri cantori di Norimberga, non foss’altro perché è nuovo e sperimentale, presuppone non soltanto la comprensione ma anche, in un certo senso, la complicità del pubblico. È un’avventura che dobbiamo affrontare insieme. Mentre rileggo e ripasso i miei abbozzi che presto diventeranno didascalie, e poi fasci di luce proiettati su uno schermo issato sopra il palcoscenico dove si rappresentano i Maestri cantori di Norimberga, mi sembra di aver dissezionato una creatura viva e intoccabile, e di stare ancora cercando di donarle una nuova parvenza di vita. Ma poi verrà la scena, verrà il canto, verrà la musica, e forse questo strumento da noi aggiunto servirà ad entrare dentro la magia del teatro. Se così non fosse, abbassate lo sguardo e non ve ne curate. Comunque vada, vincerà sempre Wagner.


Musica Viva, n. 5 – anno X

Articoli