Perugia: Sagra Musicale Umbra

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Festa grande per Francesco Siciliani, quest’anno a Perugia. La Sagra Musicale Umbra celebra i quarant’anni di vita e rende omaggio al suo creatore e animatore instancabile, tutt’ora sulla breccia. Ma più che la cerimonia e il conferimento dei sigilli della città di Perugia, crediamo che a Siciliani abbia fatto piacere la pubblicazione di un ponderoso annuario che raccoglie l’intera attività della Sagra: documento eloquente e persino impressionante di ciò che la Sagra ha rappresentato nella cultura italiana grazie al fiuto e al prestigio di Siciliani. Eppure la formula sembrerebbe a prima vista semplice: i grandi capolavori del repertorio sacro e le riscoperte di partiture poco frequentate con gli interpreti adatti; o, se si vuole, i grandi interpreti (e da Perugia sono passati proprio tutti) messi al servizio degli uni e delle altre. Questa formula, che Siciliani ereditò dal Maggio Fiorentino e allo stesso Maggio consacrò, non ha mai cessato di produrre alchimie alla Sagra e di rinnovarsi ogni anno con dosaggio sapiente. Nonostante che ormai sia stata imitata o copiata quasi dovunque, la produzione Siciliani resta comunque d.o.c.

Edizione 1985. Corre l’obbligo delle celebrazioni centenarie e la Sagra presenta Bach e Händel in versioni autorevoli, l’una mediata dalla filologia ben temperata (dal gusto e dall’intelligenza) del complesso barocco di John Eliot Gardiner (l’oratorio Israele in Egitto), l’altra offerta con spontanea partecipazione dai vivaci componenti dell’Academy of St. Martin-in-the-Fields (concerti di Bach e Händel). Si fa un gran parlare di Klaus Tennstedt come nome nuovo del firmamento dei grandi direttori internazionali e Perugia lo ospita per la prima volta in Italia con la sua orchestra (London Philharmonic) nella Nona Sinfonia di Beethoven (che alla Sagra è un po’ la prova d’obbligo per le grandi investiture: non sarà anche un poco malizioso, Siciliani?) e nella sublime Creazione di Haydn. E sul versante delle riscoperte in prima esecuzione italiana: un oratorio inedito di Francesco Morlacchi (La passione di nostro Signore Gesú Cristo) restituito in vita tutt’altro che arbitrariamente da quel gran “”necrofilo”” che è Bruno Rigacci (un altro a cui non mancano intuito e mestiere); più una primizia di classe, la tragedia lirica Prometeo di Gabriel Fauré depositata nelle mani più sicure e amorose, quelle di Georges Pretre a capo dei complessi dell’Accademia di Santa Cecilia. Signori, così si fa un festival.

L’occasione di udire dal vivo Tennstedt ha prodotto impressioni contrastanti. Tennstedt appartiene alla schiera dei direttori di solida scuola germanica, oggi peraltro in estinzione, e potrebbe fregiarsi del titolo di Kapellmeister se questo titolo non suonasse equivocamente riduttivo. Più che imporre la sua personalità sull’orchestra, e curare analiticamente i particolari, egli tende a coordinare il lavoro con forbita compitezza e con comunicativa cordialità, sintenticamente: pensando a far musica, con immediatezza e sensibilità, senza accendersi a scaldarsi più di tanto. Questo modo in intendere la figura del direttore d’orchestra è senz’altro accattivante, ma appare per i gusti odierni un po’ demodé: forse addirittura post-moderno. E ciò spiega l’interesse che intorno a lui si è creato. Di fatto, Tennstedt è sembrato perfettamente a suo (e nostro) agio nella elementare profondità della Nona, soprattutto nell’ultimo tempo, affrontato col respiro un po’ grosso e concitato. Ma sono impressioni che hanno bisogno di una verifica.

Riflessioni stimolanti e squisite prelibatezze sono venute invece dal Prometeo di Fauré, distillato da Prétre alla sua maniera unica e insinuante quando si tratti di musica francese. Le prelibatezze stanno tutte dalla parte delle preziosità timbriche, delle estenuazioni melodiche, delle geniali soluzioni armoniche (geniali davvero nella commistione di agganci modali con fibrillazioni cromatiche), insomma in quello stile fra il patetico e il floreale, ma con misura in entrambe le direzioni, che conferisce a decadentismo francese un’aura tutta speciale e, sol che ci si lasci andare, meravigliosamente coinvolgente. Le riflessioni riguardano invece l’idea di opera che un musicista come Fauré, e la cultura che egli rappresentava,      potevano avere in quel breve passaggio che separa l’Ottocento dall’incombente Novecento di Debussy e Ravel (Prometeo è del 1900): un insieme di nostalgica tradizione (il sottotitolo si richiama nientemento che alla «tragédie lyrique»), di malcelata e soprattutto contrastata adorazione per Wagner, di avvertito presagio dell’ineluttabile tramonto dei riti splendidi del teatro ottocentesco, corroso al crepuscolo di una crisi di valori ideali e linguistici. Con atto inutilmente, ma fantasticamente prometeico, Fauré rievoca i fasti dell’oratoria antica nelle declamazioni sontuose del protagonista, cede alla tentazione della melodia infinita e della continuità tematica wagneriane, incastona gemme preziose di puri inserti vocali chiusi in se stessi, agita il caleidoscopio delle combinanzioni armoniche e delle suggestioni cromatiche, affida alla voce di cori palpitanti e soavi il suo messaggio di dolor e di speranza, di pietà e di redenzione: e rende così omaggio a un genere che forse non gli apparteneva, che certo non dominava nei suoi meccanismi drammaturgici e musicali, ma nel quale non poteva mancare di dare la sua testimonianza e quella della sua epoca.


Musica Viva, n. 11 – anno IX

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