Ciò che l’Italia, la sua cultura e la sua musica non meno che il suo paesaggio e le sue tradizioni, ha significato in epoche diverse per il mondo dell’arte europea, era il tema quest’anno del Cantiere Internazionale di Montepulciano, al giro di boa della decima edizione. Di qui il titolo, “”Viaggio in Italia””, e un programma composito aperto a sollecitazioni disparate, fra lo sperimentale e la ricerca interdisciplinare, come del resto a Montepulciano avviene da sempre. Tramontata l’era di Henze, uno degli ultimi viaggiatori stranieri che a Montepulciano ha saputo lasciare una traccia non effimera, è ora la volta di Marcel Marceau, fondatore di un laboratorio di mimo che è già circondato di entusiasmi e di prove artistiche limpide, forse suscettibile di ulteriori sviluppi; e intorno a lui un fervore di iniziative che spaziano dalla musica antica a quella contemporanea, con spettacoli di prosa, seminari e concerti che, al di là dei risultati specifici (Montepulciano deve fare spesso di necessità virtù), sono guidati da una logica non casuale.
Se i concerti, affidati all’estro di Jan Latham-Koenig, non avevano difficoltà a trovare agganci con la tematica del Cantiere, stante il numero di musicisti che si sono ispirati in vario modo al paesaggio, alla storia e alla musica italiana (dal Wolf dei canti italiani allo Stravinsky del Pulcinella, dal Berlioz del Carnevale romano e dell’Aroldo in Italia al Romeo e Giulietta di Ciaikovsky, tutti opportunamente presenti in programma), la scelta dell’opera si rivelava più capziosa, ma non meno interessante. Si trattava dell’Arlecchino di Ferruccio Busoni, che non facendo da sé serata era preceduto da una piccola opera comica di Rossini ventenne, L’occasione fa il ladro: accostamento suggerito da Busoni stesso, dato che l’idea di comporre l’Arlecchino gli fu suggerita da uno spettacolo di marionette della farsa rossiniana, ma mai prima d’ora realizzato.
L’abbinamento funziona benissimo, ed è anzi illuminante a proposito della stilizzazione operata da Busoni sulle strutture dell’opera a pezzi chiusi, ancora splendenti di felice immediatezza nel lavoro rossiniano, Arlecchino è infatti un capriccio teatrale distaccato e disincantato, frutto di un acre divertimento e di una lucida demistificazione del gioco scenico, alla cui base sta una poetica antinaturalistica condita tanto di suggestioni fantastiche quanto di stimoli intellettualistici. Il viaggio che Busoni compie all’interno dell’opera “”italiana””, proponendosi quasi di rinverdire i fasti dell’antica commedia dell’arte senza rinunciare alla parodia linguistica propria del Novecento più tagliente, risalta dunque a tutto tondo dall’accostamento con la spregiudicata libertà dell’invenzione rossiniana e chiarisce il senso di una nostalgia per una purezza originaria perduta, che dà alla confessione di Busoni i tratti di un’ironia amara e insieme esilarante.
Peccato che un’intuizione così brillante sia stata sciupata e dissolta dall’impostazione scenica dello spettacolo. Il regista Peter Konwitschny, formatosi alla scuola di Ruth Berghaus al “”Berliner Ensemble””, opta per un’interpretazione pesantemente didascalica di tipo vetero-brechtiano e di stile Anni Venti-Trenta; del tutto inopinatamente, pensa di ristabilire un filo di continuità là dove dovrebbe esistere solo netta, consapevole contrapposizione: e così già durante la Sinfonia dell’Occasione fa il ladro (che Rossini riprenderà poi nel Temporale del Barbiere di Siviglia) fa sfilare tutti i personaggi dell’Arlecchino con improbabili gags da cabaret, estendendole poi, costumi e atteggiamenti da teatro espressionista compresi, per tutta la durata della farsa rossiniana. Con il risultato di cadere nella noia più irritante anche in Busoni. Qui, poi, il personaggio di Arlecchino, che è una parte parlata, viene incredibilmente affidato a una donna vestita in abiti sottoproletari, che urla e gesticola come un’ossessa; e coerentemente tutto va a finire, per fare specie, in un immotivato strip-tease della nuova fiamma di Arlecchino, che si chiarisce definitivamente come un lenone.
L’evidente incongruità della regia si scontra con la proprietà dell’esecuzione musicale, risultato di ben altra preparazione. Antony Beaumont è efficace in Rossini, addirittura elettrizzante in Busoni. Che questo giovane direttore d’orchestra assurto a benemerenze busoniane con il recente completamento del finale del Doktor Faust dato in prima mondiale la scorsa primavera a Bologna sappia il fatto suo, lo dimostra la cura della concertazione e del lavoro con i cantanti, tutti provenienti dalla fucina dell’Opern-Studio di Colonia, dove il Beaumont è attivo: e almeno alcuni di essi, come Monika Krause e Liat Himmelheber e il bravo baritono John Pflieger, mostrano di essere sulla strada giusta per una buona carriera. La collaborazione con il centro lirico di Colonia segna un importante punto all’attivo del Cantiere di Montepulciano e rinnova quel proficuo scambio tra le giovani forze eupee (estrema appendice del dare e avere viaggiando in Italia) che fin dal principio ne ha contraddistinto le iniziative.
Musica Viva, n. 10 – anno IX