“”Il vero Wagner si ascolta qui, non a Bayreuth!””. Sto parlando con un distinto signore tedesco, in impeccabile smoking e di età indefinibile fra i quaranta e i settant’anni, nell’intervallo della rappresentazione del Liebesverbot all’Opera di Stato di Monaco. In fila spontaneamente disciplinata, teutonica per intenderci, stiamo attendendo che venga il nostro turno per un caffè o una birra. E in questi casi a Monaco, la più mediterranea fra le metropoli tedesche, è consuetudine attaccar discorso e scambiarsi impressioni a caldo sullo spettacolo. Questa breve conversazione rispecchia il clima di euforia e insieme di normalità che accompagna le celebrazioni wagneriane del centenario, a Monaco imponenti come mai: tutte e tredici le opere di Wagner, comprese le tre giovanili (Die Feen, Das Liebesverbot e Rienzi), ognuna replicata più volte nel corso della stagione, e tutte quante affidate alla direzione musicale di Wolfgang Sawallisch, da sei mesi “”Operndirektor”” – vale a dire nello stesso tempo sovrintendente, direttore artistico e guida stabile dell’orchestra – del teatro bavarese. Si tratta della prima volta che un fatto del genere accade nella storia centenaria dell’interpretazione wagneriana.
In queste settimane l’interesse principale è costituito senza dubbio dalla riproposta del Liebesverbot, la seconda opera di Wagner, scritta a ventun anni (Die Feen e Rienzi seguiranno a luglio, nel corso del festival); ma l’ospite che si trattenga a Monaco per una intera settimana può ascol-tare anche Tannhäuser, Tristano e I maestri cantori. E poiché a Monaco c’è spettacolo tutte le sere, e non si vive di solo Wagner, neppure nell’anno del centenario, in sovrappiù, sol che lo voglia, anche Verdi, Puccini e qualche balletto, in combinazioni che variano di settimana in settimana: se non è Tannhäuser, sarà L’olandese volante o Lohengrin; per Pasqua, ovviamente Parsifal. Soltanto il Ring ha già eseguito le repliche in gennaio, con sommo rammarico di quanti non hanno potuto assistere al più suggestivo ed esclusivo rito della fede wagneriana. A causa della drammatica carenza di cantanti, spiega preoccupato Sawallisch.
Arrivati a Monaco curiosi e un po’ scettici (magari sotto sotto pensando: mal che vada, mi rifarò col Tristano), abbiamo trovato una lietissima sorpresa. Giacché Das Liebesverbot (ossia Il divieto d’amare, la “”grande opera comica”” che Wagner ricavò dalla commedia Measure for Measure di Shakespeare) è non soltanto un anello mancante nella storia della produzione wagneriana ma anche un’opera godibilissima e di fascino imperioso nella sua stessa giovanile esuberanza e pletorica teatralità; la cui conoscenza, in una esecuzione dal vivo splendida come quella offerta a Monaco, chiarisce molti punti della linea evolutiva che condusse, passo dopo passo, alla poetica del dramma musicale. Questo cammino è dettato da una singolare coerenza e drasticità la cui forza risiede nella progressiva riduzione e concentrazione degli elementi costruttivi, in una sorta di autoimposta privazione sulla quale Wagner fonda la propria concezione del teatro musicale: procedendo non per via di astrattezza, bensì di prassi viva.
Le prime tre opere di Wagner sono, programmaticamente, all’insegna della monumentalità, della grandezza (grandezza di intenzioni, ma anche di mezzi e di scopi). L’aggettivo “”grande”” ricorre esplicitamente in ognuna di esse: Die Feen è una “”grande opera fantastica””, Das Liebesverbot una “”grande opera comica””, Rienzi una “”grande opera tragica””. Le tre categorie del fantastico, del comico e del tragico vi sono assunte “”in grande”” e, di fatto, liquidate: nella sua seconda fase Wagner definirà l’altro trittico – L’olandese volante, Tannhäuser e Lohengrin – semplicemente “”opere romantiche””. Solo a questo punto avverrà il passaggio al dramma musicale vero e proprio.
L’ascolto del Divieto d’amare chiarisce in modo inequivocabile l’interna necessità di questo filo evolutivo, gettando luce sull’area da cui Wagner prende le mosse nel genere più delicato e apparentemente a lui più estraneo, quello comico. In che senso Das Liebesverbot è un’opera comica? Non tanto nell’intreccio, che pur ha lati comici preminenti, e neppure soltanto nella caratterizzazione, da tipica opera buffa, di alcuni personaggi, quanto nel modo di trattare le situazioni drammatiche e di commentarle, con brillantezza esornativa, nella musica, comicamente: una musica che non tende a fondersi con il dramma ma a sovrapporsi ad esso seguendo una linea di magniloquente, sovrabbondante autonomia.
Stupiscono la padronanza e l’abilità mostrate da Wagner nel dominare le convenzioni tipiche del genere comico, chiaramente ispirandosi e imparando da Mozart e da Rossini; solo che queste convenzioni sono continuamente forzate, spinte all’eccesso, presentate sotto una luce distaccata, critica: talvolta ironica, più spesso sarcastica e pesantemente grottesca. Ciò determina quasi a ogni passo quegli squilibri nei quali si insinua, in modo non sempre informale, la ricerca di una verità della finzione teatrale che già prefigura le scelte mature: basta l’individuazione di un timbro puro isolato miracolosamente sulla massiccia compattezza dell’orchestrazione (un clarinetto, un oboe) oppure una sospensione lirica nella quale il flusso melodico tenda alla circolarità infinita per comunicare distintamente l’anelito verso un tipo di teatro profondamente diverso da quello tradizionale, che pure qui è assunto a modello. Nella ricerca di qualche cosa di diverso, sentito ancora indistintamente, Wagner sembra partire dalla accentuazione, all’interno di forme costituite, del “”di più””.
Sommamente istruttivo appare sotto questo riguardo l’impianto drammaturgico, che accosta a forme chiuse tradizionali, d’improvviso stravolte, momenti di ininterrotta continuità, nei quali il tessuto sinfonico tende a ispessirsi sia pur soltanto sotto specie di quantità. Il desiderio ambizioso di stupire, di far vedere la propria audace bravura, usando quindi mezzi straordinariamente grandi (grande orchestra, grandi cori, pretese vocali esorbitanti, e alla base di tutto il grande Shakespeare), è del resto tratto distintivo dell’opera. L’entusiasmo vi giuoca un ruolo senz’altro ambiguo. Giacché si ha a ogni piè sospinto l’impressione che Wagner sia padronissimo della mano, e si diverta a confondere le carte, ora fornendoci ora sottraendoci punti di riferimento che, in un’opera dichiarata comica, ci sarebbero altrimenti abituali. Si aggiunga che circolano in essa una carica erotica fortissima e una irriverenza verso il costume e l’ordine costituito che, sia pur mascherate sotto l’assunto comico, non mancano di pungenza e di asprezza, di fatto smascherando le ottusità e le frustazioni del conformismo divenuto legge, da Wagner inteso certo in senso assai lato: è significativo che colui che pretende di abolire l’amore e l’esplosione gioiosa del carnevale sia un “”tedesco”” (Friedrich, governatore della Sicilia) e che Wagner opponga al rigore di imposizioni assurde l’energica intraprendenza di una novizia in calore (Isabella), presto contagiata dalla fresca vivacità e dalla incontenibile gioia di vivere del popolo siciliano: visto, quest’ultimo, con gli occhi fantasiosi e un po’ nostalgici di un puro tedesco, non ancora convertito al culto norimberghese della “”heilige deutsche Kunst””.
L’edizione che del Liebesverbot si dà a Monaco è assolutamente superba, forse ineguagliabile. Sawallisch ne spreme tutti i valori musicali, da quelli brillanti e virtuosistici a quelli comici e lirici, meravigliosamente, senza pretendere di occultare le evidenti ingenuità e ridondanze della partitura e nello stesso tempo fornendo una chiave interpretativa lucidissima, tesa dal principio alla fine; giovandosi di un’orchestra scintillante, di un coro splendido e di una compagnia di canto omogenea nella quale spiccano il Friedrich di Hermann Prey e l’Isabella di Sabine Hass, nuovo astro della compagnia stabile monacense. Azzeccatissima la scelta di Jean-Pierre Ponnelle come regista, scenografo e costumista. Ponnelle, forte delle sue esperienze rossiniane e mozartiane, ha non soltanto il merito di un gusto figurativo finissimo ma anche la capacità di evidenziare teatralmente gli strappi, le improvvise deviazioni dalla convenzione di cui l’opera è ricolma: una regia, la sua, tutta costruita sulla musica, capace di divertire, guidare e far riflettere lo spettatore. Sawallisch ha dunque tutte le ragioni per dichiararsi fiero di questa operazione, da lui ferreamente sostenuta contro i dubbi e lo scetticismo dei suoi stessi collaboratori. All’inizio, ci raccontava, l’orchestra era fredda, restia ad appassionarsi, ad accettare una partitura sconosciuta di un autore tanto amato e familiare; ma a poco a poco ci ha preso gusto, fino a suonare con una gioia e una partecipazione straordinarie. E il pubblico? Quel signore rammentato all’inizio mi diceva che molti a Monaco eran tornati a sentirla più volte: costui era al quarto ascolto. Gli fa eco Sawallisch: un successo enorme. Das Liebesverbot rimarrà ora in repertorio per almeno quattro stagioni, come del resto qui accade per ogni nuova produzione di successo. Gli chiedo se questa esperienza ha mutato qualcosa nella sua concezione interpretativa di Wagner; “”no””, mi risponde, “”a parte la gioia e l’arricchimento che mi dà il dirigerla, insieme con le altre dodici opere di Wagner. Era un mio vecchio sogno, che ora si è realizzato. Credo sia giusto allargare il nostro repertorio, specie quello tedesco: ora faremo Nicolai, Cornelius e Marschner. Se poi la cosa funziona, tanto meglio. Ma ero sicuro che avrebbe funzionato. È musica degna di Wagner, anche se non è di certo il Tristano. Ma non potrei dirigere sempre e solo il Tristano. È un divieto d’amare ben diverso! Quella è musica che uccide!””.
Due sere dopo, Sawallisch ha diretto il Tristano. E ho capito che cosa intendesse dire.
Musica Viva, n. 4 – anno VII