Wozzeck, opera del Novecento. Così nuova nei contenuti e nello stesso tempo così fortemente ancorata alle leggi eterne del teatro da presentarsi all’ascolto, nonostante la sua durezza, immediatamente comprensibile e commovente. Essa non fonda tradizioni, ma non stravolge la struttura dell’opera in quanto genere, pur accogliendo in pieno temi e caratteri propri della modernità: una modernità che era già implicita nei frammenti di Büchner che stanno alla base dell’opera. Come è noto, Berg non ebbe bisogno di creare da essi un libretto: si limitò a dare organicità al dramma, apportando tagli e semplificazioni dove gli sembravano necessari, al fine di costruire, nell’arco di tre atti di cinque scene ciascuno, una parabola di proporzioni classiche, organizzata in tre fasi chiaramente ispirate a modelli insieme strumentali e drammaturgici: Esposizione, Elaborazione e Ripresa, ovvero Esposizione (Wozzeck e il mondo che lo circonda), Sviluppo drammatico (Peripezia) e Catastrofe.
La stretta connessione tra il piano musicale e quello drammatico è ottenuta mediante l’uso di forme strumentali che contraddistinguono ogni scena e nel suo insieme ogni atto. Il primo è costituito da cinque pezzi caratteristici, ognuno collegato alla presentazione di un personaggio: la Suite per il Capitano, la Rapsodia per Andres, la Berceuse per Marie, la Passacaglia per il Dottore, il Rondò per il Tamburmaggiore. I tratti distintivi delle figure e dell’ambiente sono proiettati nella forma che li contiene: ma come se fosse Wozzeck a vederli e isolarli nella sua allucinazione. Il secondo atto è una Sinfonia in cinque movimenti, dove i contrasti si intrecciano in una vertiginosa alternanza di sfondi e primi piani sull’ immutabile scorrere del tempo e della vita: scanditi da marce frenetiche e musiche di danza di macabra allegria. All’ espansione anche formale del secondo atto si oppone la stilizzazione tragica del terzo, basato su una serie di «invenzioni» che coniugano la massima riduzione degli elementi linguistici (su un tema, su una nota, su un ritmo, su un accordo, su una tonalità) con l’intima riflessione sul destino dell’uomo sconfitto. Con un «perpetuum mobile» che non conclude, la fine si ricollega all’inizio, senza catarsi, sull’ immagine dell’innocenza infantile sospesa sopra l’ ignoto.
Tale enorme complessità dell’impianto formale – un vero miracolo di strategia compositiva – riposa su una semplicità addirittura disarmante di comunicazione e di espressione, sul saldo equilibrio dei rapporti tra canto, musica e azione. Berg ne sposta assai in avanti i confini, ma non varca mai la solgia estrema delle loro funzioni: anzi, le cementa in reciproca chiarificazione, senza rivoluzionare i parametri e le attese. L’orchestra assurge a un ruolo di primo piano nei preludi e negli interludi tra scena e scena, tra atto a atto, ma rappresenta sempre lo snodo naturale dell’azione: talvolta è commento e spiegazione, talaltra decantazione o condensazione di stati d’animo, quasi come in un coro che tragga le fila affidandosi alla pura emozione dei suoni e dei timbri.
La sfida di comporre un’ opera moderna senza frantumare le convenzioni del genere è vinta sul piano più ostico, quello della vocalità. Tra i deliri espressionisti di Wozzeck e le dolcezze di un lirismo perduto e ritrovato di Marie – estremi che si toccano senza comunicare – Berg squaderna tutta una serie di tipi che risultano codificabili, prima ancora che dalla posizione nel dramma, dagli stili di canto che li configurano già a priori: tenore comico il Capitano, grottesco e cinico nella esibizione di un ridicolo senso dell’ autorità pomposamente gridato in falsetto; basso comico il Dottore, tutto preso dalla smania di esperimenti tanto disumani quanto scientificamente assurdi; tenore drammatico il Tamburmaggiore, gonfio di muscoli non meno che di vanagloria militaresca; tenore lirico Andres, il compagno di Wozzeck di lui ancor più spaesato e impaurito: fino al tenore acuto del Pazzo, che come tutti i pazzi è l’unico ad avere una visione lucida e nitida delle cose. Basta ascoltarli cantare per capire che cosa rappresentino nell’economia di un’umanità che, perduto il senso della pietà e della verità, annaspa in attesa di un’ improbabile salvezza e non si rassegna a rinunciare alla speranza di un’illusione e di un sogno. A tutti costoro Berg regala una scintilla di conoscenza.
Rimane dolorosamente imperscrutabile il perché Wozzeck e Marie, che si amano teneramente pur nella loro solitudine, precipitino nell’abisso della disperazione, nell’ orrore dell’ annientamento. Marie tradisce Wozzeck per vanità e leggerezza, Wozzeck la uccide per gelosia e insicurezza: solo così si compirà il loro destino. Ma esiste un destino nei loro orizzonti di povera gente? Esiste per i votati alla sconfitta un destino? Digeriti i sociologismi di Adorno, dal sommo esegeta gettati in pasto alla pervicace ottusità dei fonditori di bottoni, pare caduta in discredito la lettura del Wozzeck come opera di denuncia sociale e perfino politica, discriminante e univoca. Non per questo ci potremmo accontentare di una interpretazione meramente passionale, come di un caso clinico di aberrazione mentale: altri sono i motivi sottesi al dramma musicale.
La grandezza di Berg (e prima di lui di Büchner) sta nell’aver posto al centro del dramma un antieroe, ammantandolo di una straordinaria severità di forma e di linguaggi senza fargli perdere nulla dell’autenticità dell’uomo comune, e delle verità delle sue pulsioni e delle sue ossessioni. Il terrore che lo attanaglia nella sua inadeguatezza a vivere, trasmettendosi per estensione o per contrasto a tutti gli altri personaggi, mette in circolo una reazione di partecipazione emotiva assoluta, come di cosa che ci riguardi e ci coinvolga direttamente; la tristezza desolata del suo caso, come avviene per gli eroi tragici, tracima dal chiuso del palcoscenico nella nostra anima, richiedendo una presa di posizione: ma rimane anche una altissima dichiarazione di fede nel teatro.
da “”La Repubblica””