E’ probabile che dopo il clamore suscitato dalle rappresentazioni di Der.ferne Klang (Il suono lontano) alla Fenice di Venezia (direttore Gabriele Ferro, allestimento di Giorgio Marini e Lauro Crisman), il silenzio torni a scendere sulla figura e l’opera di Franz Schreker, compositore austriaco attivo in quel periodo cruciale che fa perno intorno agli anni della prima guerra mondiale (per l’esattezza, nato nel 1878, morto nel 1934). Eppure proprio queste rappresentazioni hanno dimostrato che la moda, altrove ormai inflazionata, delle Secessioni, delle avanguardie, dello Jugendstil e di tutto quel complesso quadro culturale che convenzionalmente va sotto il nome di «finis Austriae», nella musica troverebbe ` terreno adatto ‘per un ripensamento e. prima ancora, per una reale conoscenza storico-critica; e ad esserne interessati, allora, sarebbero non soltanto Schreker — tutto Schreker —, ma anche compositori «minori» come Zemlinsky e Schmidt, Goldmark e Lehar, nomi ignoti affatto al nostro pubblico, che pur consuma abitualmente il non lontano predecessore Gustav Mahler.
Che non si tratti poi neppure troppo di una questione di qualità, l’ascolto del Suono lontano – per la prima volta reso accessibile in Italia – lo ha indicato chiaramente. Certo è che il problema estetico, in questi autori più che mai, non può essere disgiunto da considerazioni culturali e storiche, ponendosi inevitabilmente, in una posizione scentrata, nel labile «presente» chiuso dalla morsa di un «prima» e di un «poi». Sintetizzando: un «prima» rappresentato dall’eredità dell’opera ottocentesca e di quella wagneriana in particolare; un «poi» costituito dalle nuove forme e dai nuovi linguaggi teatrali — giacchè al teatro ci riferiamo principalmente — che la musica avrebbe assunto nel corso del Novecento. E non a caso l’inquadramento di Schreker si è orientato finora su Wagner da un lato, Berg e Schoenberg dall’altro, soffrendo di un temibile quanto ineludibile confronto con i contemporanei Strauss e Puccini.
Der ferne Klang, la prima opera di Schreker composta in due distinte fasi fra il 1901 e il 1910, è la rappresentazione di una utopia. Il giovane musicista Fritz abbandona la fidanzata Grete per andare alla ricerca del «suono misteriosa-mente lontano del mondo» che lo ossessiona e che sembra nascere da «arpe toccate da mani spettrali nel vento». Disperata, Grete vuole uccidersi ma viene salvata da una ambigua donna, che la avvia alla prostituzione. In breve, Grete diviene una puttana famosa e ambita, che esercita in una lussuosa casa di piacere, «La casa delle maschere», su di un’isola della laguna di Venezia. Qui, mentre colei guida il gioco raffinato della conquista da parte di conti e cavalieri, la ritrova Fritz, spinto verso l’isola dal-l’eco inafferrabile dei magici suoni. Una seconda volta egli la respinge. Grete, ormai senza speranza, scende uno dopo l’altro i gradini dell’annientamento di sé: povera donna di strada, sarà ora lei a seguire un miraggio insensato, rivede-re Fritz. Si ritroveranno profondamente mutati; e Fritz comprenderà che il suono agognato emanava appunto da Grete e lo legava a lei: rivelazione che coinciderà con la sua morte e con la definitiva impossibilità di dare forma al suono infine raggiunto.
Al di là degli stessi simbolismi del testo ideato da Schreker – simbolismi che continua-mente tendono a confondersi con la verità e la realtà in un groviglio inestricabile – l’opera presenta una stratificazione di temi. L’utopia del suo-no lontano si rivolta in un tragico paradosso: allontanando-si da Grete, Fritz lo perde perdendo se stesso; riavvicinandosi a lei, lo ascolta di nuovo ma non lo afferra; e quando grazie a lei lo riafferra, muore senza averlo potuto formalizzare (che Fntz sia un musi-cista è naturalmente non sol-tanto uno spunto autobiografico ma anche un motivo caratteristico). Ed è significativo che la spinta verso l’alto cui anela Fritz corrisponda alla progressiva degradazione verso il basso della protagonista: solo per dimostrare che l’una è lo specchio dell’altra (i due si ritroveranno infatti in un punto imprecisato del cerchio, indefinito anche scenicamente, il cui modello è senza dubbio il luogo senza spazio e tempo del duetto d’amore del Tristano).
Ora ciò che rende estremamente pregnante e concentrata questa stratificazione di temi (e altri, più sottili, abbiamo dovuto tralasciare) è il ruolo che vi ha la musica. Essa, secondo le intenzioni dell’autore, mira ad esprimere «l’interiorità spirituale ricca di mistero», ossia uno stato d’animo; puro, una visione utopica. E, ciò è qualcosa di più importante del testo, della drammaturgia, della composizione musicale stessa, qualcosa di inafferrabile e di inesprimibile: appunto un sentimento utopico elevato all’ennesima potenza e continuamente differito. Questo atteggiamento non genera infatti uno stato mistico ma, al contrario, una lucida, spietata dissezione del linguaggio musicale, nelle sue forme e nei suoi contenuti eloquenti. Alla stratificazione dei temi corrisponde così una analoga, ancor più incisiva stratificazione della musica.
In altri termini, Schreker riconnette poi i materiali musicali – melodici, ritmici, armonici, timbrici e così via – per successive accumulazioni, spaziando dal rumore vero e proprio alle più sofisticate, combinazioni linguistiche, tanto l’una quanto le altre di sconcertante modernità; ma sottrae, per così dire, una univoca chiave di lettura, che consenta di districarsi nel labirinto dei suoni: tutto ciò che viene detto – temi, melodie, punti di riferimento armonici, perfino strumentali – si ribalta nel suo contrario, non indifferentemente, ma enigmaticamente: e quel che resta è un’impressione insieme chiara e indistinta, qualcosa di brulicante sullo scorrere insensibile del tempo.
L’opera si apre e si chiude con un duetto d’amore, simmetricamente: due culmini espressivi – luogo comune dell’opera tradizionale – che in questo contesto funzionano, però, da anticlimax. L’ordine formale che governa l’opera, regolando il flusso di una intera tipologia operistica (spunti lirici, grotteschi, caricaturali, ironici, perfino scurrili e triviali, o viceversa sublimi), è un recipiente vuoto che ha perduto ogni valore positivo e costruttivo: i personaggi, sia che parlino o cantino nei loro monologhi o colloqui, sembrano procedere su linee parallele: un incontro, una comunicazione ne risulta impossibile, se non sulla soglia della morte. Regolare questo caos pare essere per Schreker l’unico modo di esprimere l’angoscia che lo attanaglia.
Non c’è bisogno di snocciolare il rosario della «krisis», attuale ai tempi di Schreker e forse ancora ai nostri, per aggiungere che in simili partite l’uomo finisce sovente per imporsi scacco matto.
da “”La Nazione””