La grande opera diventa utopia anche all’estero

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Mentre i nostri teatri d’opera si apprestano ad aprire le loro stagioni in un clima che sembra aver risvegliato antichi orgogli e rivalità (forse una conseguenza dell’annunciata legge di riforma) , all’estero tutte le «case d’opera» sono in piena, avanzata attività, e non soltanto là dove vige la legge del «sipario su» trecentotrenta giorni all’anno. A Chicago dove lavora Bartoletti, presto in comproprietà con Firenze, la stagione lirica sta addirittura per concludersi quanto a nuove produzioni (cinque in quattro mesi) e continuerà pianificando repliche, riprese e nuova programmazione. Ma scorrendo i cartelloni dei teatri d’opera stranieri, europei ed americani, si possono individuare alcune linee di tendenza che forse meritano qualche osservazione.

Anzitutto l’ideale del repertorio stabile ad altissimo o alto livello sembra ormai segnare il passo e rivelarsi un’utopia, anche nei paesi tedeschi. Anche qui, infatti, si va ormai decisamente verso una formula mista di «stagione» e «repertorio», conseguenza inevitabile della sempre più evidente impossibilità di legare stabilmente a un teatro non soltanto i grandi artisti (cantanti e direttori) ma anche quelli appena promettenti. A Vienna come a Monaco o Berlino una nuova produzione dura, nella sua distribuzione originale, appena lo spazio di poche recite concentrate nel tempo; dopodiché diviene una pallida immagine di se stessa, salvo sempre più rare eccezioni in sede di festival Anche le riprese del repertorio, per le quali non sono previste più che una lettura con l’orchestra e una «generale» al pianoforte, tendono a concentrarsi in recite ravvicinate, soprattutto quando vi sia la disponibilità di uno o due cantanti intorno a cui rabberciare la compagnia originaria.

I grandi direttori, come è del resto ovvio, rifiutano questa situazione ma non possono mutarla; e anche il pubblico, sempre più esigente e         non disposto a sottoscrivere abbonamenti in bianco col solo titolo delle opere (giacché ormai questa è la regola) , mostra segni d’insofferenza. Quest’anno, per la prima volta nella sua lunga storia, l’Opera di Vienna distribuisce prudentemente solo un programma bimensile, al posto di quello generale e dettagliato che tanta invidia destava nei nostri programmatori.

Un’eccezione è costituita da quei teatri nei quali operano direttori stabili e artistici di un certo nome, come Levine al Metropolitan, Sawallisch a Monaco o Colin Davis al Covent Garden. Costoro garantiscono la continuità e la qualità, ma in assenza di una compagnia stabile di peso (la grande forza di questi teatri) sono spesso costretti ad accontentarsi quanto a voci; e talvolta, come Maazel a Vienna, pagano a caro prezzo la loro intransigenza artistica.

Un altro segno del mutare dei tempi è il costante riflusso delle sperimentazioni registiche e delle cosiddette innovazioni negli allestimenti scenici. La nuova produzione del Ring di Wagner curata da Götz Friedrich a Berlino è una palese sconfessione delle tendenze di questi ultimi anni (e delle sue precedenti) : necessità o virtu? I1 fatto è che un grande teatro non può più permettersi di rischiare troppo e preferisce andare sul sicuro, magari puntando sui registi di cinema (oggi richiestissimi) che se non altro garantiscono una tenuta d’insieme più prossima agli orientamenti del pubblico. E come le compagnie di canto, nei grandi teatri del mondo, sono per la stessa opera sempre le stesse (il tenore Spas Wenkoff, che pure non è uno dei massimi, ha dichiarato di ricevere ogni anno oltre venti richieste di cantare Tristano) , così si vanno perdendo, in un livellamento generale, non soltanto le specificità dei singoli teatri ma anche le tradizioni e la cultura del loro passato, quando lo Strauss di Monaco o il Mozart di Vienna erano veramente unici. E non stupisce allora che l’idea di Bogianckino di basare le stagioni dell’Opéra di Parigi su opere della tradizione francese, prodotte da e per quel teatro, sembri in un certo senso atipica, se non rivoluzionaria.

Di fronte a questa concentrazione generalizzata, sopravvivono i teatri delle città medie e piccole, che all’estero sono tutelati da leggi e sovvenzioni precise. Il repertorio meno ovvio, rispondente all’esigenza di formare la cultura musicale di base, la ricerca teatrale e le idee non convenzionali trovano ormai in questi teatri uno spazio sempre più vitale, forse irrinunciabile; oltretutto essi sono gli unici a preoccuparsi di curare un vivaio di cantanti preparandoli ai più impegnativi cimenti futuri e a tutelare l’attività dei cosiddetti «opera-studio» (grossomodo i nostri ex-centri d’avviamento lirico) , punto d’incontro culturale e musicale per direttori, registi, cantanti, organizzatori e studiosi di teatro giovani o sulla strada della formazione. E forse questa è un’indicazione da non trascurare allorché si deciderà di varare veramente in Italia una riforma dei teatri.

da “”La Nazione””

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