L’integrale delle Sonate di Beethoven che Maurizio Pollini si è posto come obbiettivo pressoché esclusivo della sua prossima stagione concertistica sarà certamente un avvenimento importante ma dovrebbe costituire, per un artista di pianoforte che ambisca a rango di vero interprete della grande musica, quasi una superiore necessità fisiologica. Affrontare finalmente questi monumenti dell’arte pianistica tutti insieme, per sfidarli e celebrarli allo stesso tempo: che cosa c’è in fondo di piú naturale e degno per un pianista? Conforta piuttosto apprendere che nei suoi otto programmi Pollini distribuirà le 32 Sonate in successione cronologica di composizione: ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che esistono vincoli di serietà a cui neppure gli interpreti, posto che tali siano davvero, possono sottrarsi.
All’Italia, come al solito, le briciole. Ossia le prove generali sparse di quei concerti per prepararsi via via al maggior cimento. Prima tappa in ordine di apparizione (tra il primo e il secondo recital a Berlino) Firenze per gli Amici della Musica, alla Pergola stracolma e osannante: in programma l’op.49 n.1 e 2 e le tre Sonate dell’op.10. Pezzi che finora Pollini aveva affrontato, se li aveva affrontati, sporadicamente, al di fuori comunque del piano di un intergrale. Al cui interno proprio questi lavori caparbiamente giovanili sono momenti di passaggio, prove preliminari e sperimentali prima o dopo una svolta. Con l’eccezione della terza Sonata dell’op.10, il cui Presto iniziale sembra essere piuttosto una conclusione e una liquidazione; tanto quanto il Largo e Mesto che segue segna invece un vero e proprio, nuovo inizio.
Dire che il carattere di queste Sonate si adatti poco al pianismo tenace di Pollini sarebbe esagerato; difficile dire dove l’apparente disagio fosse irrequietudine camuffata. Certo è che il tema di questa integrale vi era già palesemente esposto: un Beethoven monolitico e ferreo, predestinato e quindi già prefigurato, differenziato non nell’idea di base ma solo nella parziale realizzazione di un’unica sostanza. Ovvio che passi di vertiginosa visionarietà come il citato Largo e Mesto, o l’Adagio molto della Sonata in do minore op.10 n.2, riuscissero a Pollini meravigliosamente profondi; ma siamo sicuri che Beethoven sapesse già dove sarebbe arrivato anche quando si abbandonava alla convenzione, alla grazia e alla leggerezza? E’ giusto, come fa Pollini, forzare di colpo quella discrezione? C’è poi l’altro aspetto che sembra stargli molto a cuore: quello della «modernità» di Beethoven, intesa come stato d’animo morale e imperativo categorico prima ancora che come fatto di linguaggio. Idea su cui si potrebbe anche eccepire, ma che a Pollini riesce cosí convincente da lasciarci annichiliti d’ammirazione. Non mancherà però occasione di riparlarne, di tornarci su. Magari con altri confronti.
da “”Il Giornale””