A metà dell’Opera

A

Il dramma esige la rivelazione della maniera in cui l’essere umano reagisce alle azioni e agli eventi. Un’opera si qualifica come dramma quando favorisce tali rivelazioni. Come riesce a farlo? Come avviene? Come si fa a stabilirlo?». A domanda, posta da lui stesso, l’autore, Joseph Kerman, risponde: «In un’opera la musica è il mezzo insostituibile dell’espressione artistica, il mezzo su cui poggia la responsabilità definitiva dell’espressione drammatica».

Formulata in questi termini, la tesi di Kerman sfiora l’ovvietà. Ma tutt’altro che scontato è il contenuto del suo L’opera come dramma che appare in italiano in una tradizione purtroppo non sempre curata (e costellata di errori marchiani: la «cadenza d’inganno», procedimento armonico, trasformata in «cadenza ingannevole»; le Sonate a tre del Settecento che diventano «sonate per terzetto»; e dove sarà mai, nell’Otello, una «scena del bordello», un «terzetto dell’origliamento»?).

Su questo libro, come l’autore ricorda nella prefazione, si scatenarono sin dalla prima uscita nel 1956 (qui si pubblica la nuova edizione del 1988) polemiche anche violente per il modo assai disinvolto, talvolta irriverente, con cui veniva trattato il tema dell’opera lirica dai suoi inizi (Monteverdi) ai tempi nostri (Berg e Stravinsky). Kerman è un musicologo di valore (a lui si deve uno studio fondamentale sui Quartetti di Beethoven); ma di fronte all’opera sembra assumere spesso un atteggiamento di distacco se non di disprezzo: evidentemente di questo genere detesta la popolarità e il successo.

Il suo punto di vista è molto americano, concreto e talvolta brutale; approfondite certe motivazioni, storico-critiche e analitiche, lo stile tende spesso alla discorsività e alla genericità; sicché vi si possono leggere frasi come queste: «Wagner era un gran chiacchierone, ma come artista era pratico e opportunista»; oppure, ed è già peggio: «Fin dall’inizio Puccini e Strauss rivelarono una sensibilità grossolana e un profondo cinismo nei confronti dei veri valori drammatici, caratteristiche che semplicemente si intensificarono man mano che la loro tecnica si fece più notevole. Il talento, l’abilità e la pretenziosità non sono sostituti dello spirito».

Il concetto fondamentale che regge le argomentazioni di Kerman è che nell’opera «il drammaturgo è il compositore». E lui infatti a interpretare e a dare un senso alla storia, alle situazioni, alle metafore, ai simboli esposti dal libretto. L’opera può dirsi compiuta quando la musica esercita la propria funzione espressiva centrale. Tale compimento è il dramma: l’opera diventa dramma. Kerman enumera tre modi principali grazie ai quali la musica può contribuire al dramma: può caratterizzare un personaggio (dargli vita e capovolgerlo), definire un’azione (crearla ma anche distruggerla), instaurare un mondo, ossia creare un’atmosfera particolare (Carmen, Boris e Pelléas sono, a gradi distinti, tre esempi di quest’ultimo tipo) .

Ai vertici sì trovano la fusione dei generi operata da Mozart (dalle Nozze di Figaro al Flauto magico) e naturalmente il dramma musicale di Wagner. Ma non si deve credere che la commedia altamente perfezionata di Mozart o la continuità del dramma wagneriano (l’opera come teatro cantato o poema sinfonico) siano di per sé garanti dei valori drammatici. Ciò che importa è che la musica nell’opera sviluppi con i suoi propri mezzi – che possono essere i più diversi – il potenziale drammatico di cui dispone e di cui vuole fare uso.

In questo senso, per Kerman, Verdi raggiunge pienamente lo scopo con Otello (per il modo in cui viene tradotta in musica l’immagine originale di Shakespeare), mentre Tosca (anche in rapporto a Sardou) «fallisce completamente» (strano l’accanimento di Kerman verso quest’opera, che a molti pare la più importante di Puccini, e a lui invece «modesta cosuccia sensazionalistica»). E fallisce, sempre secondo Kerman, perché anziché dare alla musica un’influenza significativa sul dramma punta tutto su effetti spettacolari e lirici banalmente sdolcinati («Quello che importava a Puccini non era la situazione, ma l’effetto che essa poteva avere sul pubblico»).

Se è vero che, come la poesia, «la musica può rivelare la qualità dell’azione e determinare così la forma drammatica nel senso più profondo», resta da stabilire quali siano i criteri da usare per giudicare della riuscita dei singoli tentativi. Kerman è drastico nel rifiutare ogni relativismo o accomodamento: occorre riconoscere dei criteri standard, e a quelli attenersi per distinguere «lavori di estrema bellezza e lavori di estrema banalità» (e invece: «Nei nostri teatri lirici l’arte e il Kitsch si alternano una sera dopo l’altra con gli stessi esecutori e lo stesso pubblico, per lo stesso applauso e con lo stesso assenso critico.

Una tale confusione sul valore dell’opera deve per forza verificarsi quando non si fa nessuna distinzione pubblica tra lavori come Orfeo e Il flauto magico da una parte e Salomè e Turandot dall’altra»). A questi criteri poi ognuno sarà libero di attenersi o no;  ma almeno saprà ciò che è dramma (ossia il compimento della musica nell’opera, il valore supremo dell’arte lirica) e ciò che invece, nonostante le apparenze, dramma in senso proprio non è: forma senza dramma.

Volentieri concordiamo. Ma è difficile accettare che perfino nel Tristano, l’opera come dramma per eccellenza (non si dice dunque Tosca o altra consimile «melodrammatica spazzatura»), vi sia una sola scena veramente, completamente ispirata, il «delirio» di Tristano nel terzo atto (al quale Kerman dedica peraltro una stupenda analisi). Perché, di fronte a tale intransigenza, è poi ridicolo incoronare Philipp Glass come il drammaturgo musicale degli anni ’80. Che sono anni cinici e bari, ma non fino a questo punto.

Joseph Kerman, «L’opera come dramma», trad. di Sandro Melani, Einaudi, pp. 231, lire 36.000

da “”Il Giornale””

Articoli