Mantova – «La favola d’Orfeo che già nell’Academia degl’invaghiti sotto gli auspicii di V.A. fù sopra Angusta scena musicalmente rappresentata, dovendo hora comparire nel gran Teatro dell’universo à far mostra di se à tutti gl’huomini non è, ragione che si lasci vedere con altro nome signata, che con quello dell’Altezza V. glorioso e felice. […] La qual vita posso sperare, mercé dell’Altezza Vostra che sia per esser durabile al pari dell’humana generatione». Nella dedica al Serenissimo Signor Duca Francesco Gonzaga della partitura dell’Orfeo, stampata a Venezia nel 1609, ossia due anni dopo che la Favola in Musica era stata rappresentata per la prima volta come spettacolo di corte nel Palazzo Ducale di Mantova, Monteverdi si mostra già consapevole di aver creato un’opera destinata a durare ben oltre i confini consueti del tempo. L’orgoglio del musicista si sposa alla gratitudine verso il mecenate, e in un certo senso la giustifica, se il Magnifico Principe sarà ricordato un giorno, lo dovrà anche all’arte e alli; gegni del compositore, alla sua creazione.
Ancora oggi l’Orfeo di Monteverdi ci appare come un’opera che apre l’epoca nuova del teatro musicale, e nello stesso tempo la fissa con le stupefacenti invenzioni e soluzioni della sua drammaturgia. Per la prima volta qui, ben oltre gli esperimenti programmatici dei fiorentini, il canto diviene veicolo espressivo delle passioni umane in una molteplicità di affetti che non sarà mai più raggiunta prima della fusione dei generi operata, più di un secolo e mezzo dopo, da Mozart. La stessa tradizione della favola pastorale, che i fiorentini avevano abbandonato per onorare il nuovo idolo del melodramma nel rito monotono del recitar cantando, viene intesa da Monteverdi come un mezzo ricchissimo per far convivere forme espressive diverse, dal madrigale al balletto, dal concerto strumentale al coro integrato nel dramma; fino alla massima realizzazione del recitativo, e all’invenzione, di colpo perfetta, dell’aria.
E, proprio come accadrà per Mozart, sono le forme apparentemente più antiche e convenzionali a illuminare, in funzione drammatica e rappresentativa, nuove prospettive teatrali: come accade per il denso episodio del coro di spiriti che chiude il quarto atto, dove il genere madrigalesco stupendamente si reincarna per dare ordine musicale e misura morale al caos improvvisamente esploso dei sentimenti e delle volontà; o nel successivo monologo recitativo di Orfeo tristemente vagante per i campi di Tracia, vertice dei tumulti dell’opera, cui possono stare accanto solo l’interrogarsi di Tamino davanti al tempio della saggezza nel Flauto Magico e il monologo di Arianna all’inizio dell’atto di Arianna a Nasso di Strauss (tra l’altro, con analogo procedimento poetico-naturalistico della risposta di Eco ai suoi lamenti). E quale intuizione dell’ambiguità illusionistica del teatro nello scioglimento dell’opera, quando Orfeo rinuncia all’amore e sale in cielo scortato da Apollo: vera ironia tragica e insieme catarsi delle passioni, prima che la moresca dia al congedo finale movenze apparentemente concilianti e festose.
Di Orfeo ciò che colpisce ancora oggi sono la solidissima tenuta drammatica e la tensione, ininterrotta e varia, dell’azione teatrale, che guardavano ben oltre i limiti angusti in cui Monteverdi fu costretto a racchiuderle la prima volta. Ne era consapevole, come si è visto. Appare perciò un tipico vezzo o equivoco dei nostri tempi confusi quello di voler ricreare dimensioni e condizioni originali, o supposte tali, come ha fatto l’Arena di Verona riportando l’Orfeo nella sede dov’era nato, il Palazzo Ducale di Mantova, in un salone forse simile a quello (la Sala di Manto). Luogo di per sé splendidissimo, ma affatto inadatto a ospitare un’opera come l’Orfeo per darne una realizzazione scenica adeguata. Anziché far convergere in un punto ben preciso un’azione estremamente concentrata, che ha nella fusione di suono e parola poetica il suo elemento eminentemente drammatico, il regista Menegatti e lo scenografo Savi l’hanno malamente dispersa facendo muovere gli attori su lunghe passerelle disposte ai tre lati del salone, ornati di pochi arredi scenici d’intenzione vagamente simbolica (statue classiche, grandi cornici vuote, veli e accenni di piante e fronde): riservando il quarto lato, alle spalle del pubblico che sedeva nel mezzo, per le entrate e le uscite. Particolarmente fastidiosa e, date le circostanze, complicazione inutile, era poi l’idea (l’ormai insopportabile idea del teatro nel teatro) di doppiare l’azione con movimenti coreografici stilizzati, leziosi: nei quali perfino Carla Fracci sembrava un pesce fuor d’acqua.
Il musicologo professor Claudio Gallico, revisore e realizzatore della partitura, si è accollato anche il compito di dirigerla e lo ha fatto con insolito ardore. Ma proprio in quanto non è un direttore, non è andato oltre le buone intenzioni, rischiando talvolta di strafare.
Secco il fraseggio, rigido e metronomico lo stacco dei tempi, non sempre curata la qualità del suono, incerto il rapporto fra canto e orchestra (anche per la infelice posizione di quest’ultima); eppure si intuiva benissimo che Gallico aveva idee chiare e apprezzabili su Monteverdi. Ma non riuscì a realizzarle, nonostante potesse contare su un gruppo strumentale misto (i «Sonatori de la gioiosa Marca» e il «Concerto Palatino») che, a parte i soliti problemi d’intonazione e di stile degli strumenti cosiddetti originali, si mostrò molto ben preparato e omogeneo. Nella compagnia di canto, in genere assai disuguale e non sempre conscia di ciò che comporti cantare Monteverdi, brillò l’Orfeo il personaggio sensibile di Mark Tucker; quanto agli altri, trattandosi di cantanti assai giovani e per lo più italiani anziché dei soliti «specialisti» anglosassoni, lo sforzo ci pare vada comunque accolto con favore e incoraggiato.
«Orfeo» di Monteverdi al Palazzo Ducale di Mantova, (repliche domani, 31 agosto e 1, 4, 7, 8 settembre).
da “”Il Giornale””