E’ impossibile far cantare Van Gogh

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Alessandria – C’era da aspettarselo che, in prossimità dell’anniversario, a qualcuno venisse in mente di scrivere un’opera su Van Gogh. Quella di Michéle Reverdy, compositrice francese nata ad Alessandria d’Egitto nel 1943, allieva di Messiaen e oggi insegnante al Conservatorio di Parigi, non è però, per dimensioni e organico, una vera opera, ma appena una serie di quadri staccati, legati insieme da un esile filo narrativo (le stazioni della vita dell’artista come indicano titolo e sottotitolo: Vincent – Sept paroles de la vie et de la mort de Vincent van Gogh). A rappresentarla in prima assoluta è stato il Laboratorio lirico di Alesandria, che da qualche anno si occupa, proficuamente, della ricerca musicale contemporanea, e del teatro da camera in particolare.

Comporre un’opera che abbia per soggetto la vita di un grande artista non è impresa facile, e forse neppure consigliabile, per molti motivi. A patto di non voler ridurre la questione a una semplice illustrazione teatrale di eventi biografici culminanti – la rivalità con Gaugain, l’orecchio mozzato, gli amori impossibili, il tentato suicidio, la follia e l’agonia -, s’impone una scelta ardua, quasi drastica, per rendere sotto il profilo musicale ciò che contraddistingue un personaggio come Van Gogh, in senso specifico e unico. A partire dal modo in cui farlo cantare sulla scena, e di cercare dunque un corrispettivo che esprima in musica ciò che Van Gogh fu e significò nell’arte sua.

Impresa pressoché disperata. L’intenzione della Reverdy di usare la musica come farebbe un pittore, in termini di colori e di visioni, di nuclei emotivi definiti timbricamente, fallisce anzitutto per l’esiguità dell’organico di soli nove strumenti (percussioni, fiati, contrabbasso e arpa); inconsistente, se non estraneo all’assunto, è poi l’uso dei cori, quello dei ragazzi che impersonano i Corvi.

Certo è che la Reverdy non avrebbe potuto desiderare battesimo migliore di quello offerto al Comunale di Alessandria da Will Humburg, splendido come ognuno dei suoi collaboratori musicali, e Flavio Ambrosini: fantasiosissimo nell’inventare una regia con pochi elementi (di André Benaim le scene, di Maria Giovanna Caselli i bei costumi d’epoca). Prima dell’operina della Reverdy, si è potuta ascoltare, in prima esecuzione assoluta, una nuova composizione di Franco Donatoni, Marches II, per arpa solista (l’insostituibile Claudia Antonelli), dodici strumenti e tre percussioni: ricreazione, di quelle a Donatoni tanto care, di dieci anni fa. Questi dieci minuti di musica spumeggiante, di freschezza inimitabile nonostante l’estrema calibratura e raffinatezza, hanno confermato che Donatoni è più che mai in un momento di grazia inventiva: una delle voci più eleganti e cristalline che la musica contemporanea, non solo italiana, possa oggi vantare.

da “”Il Giornale””

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