Pelléas et Mélisande di Debussy alla Nederlands Opera per il Festival d’Olanda: direttore Simon Rattle, regista Peter Sellars. Sulla carta, uno spettacolo che stuzzicava la curiosità, se volete un po’ perversa, di chi amando senza fine il teatro si interroghi sui suoi destini estremi, e non voglia del tutto cedere alla tentazione di alzare bandiera bianca e arrendersi all’evidenza È un po’ come tornare sul luogo dei propri sogni dove già si sa che verrà compiuto un delitto: che cosa ci spinge a farlo? E fino a che punto, partecipandovi da spettatori, non si diventa complici dell’impresa, impotenti testimoni del fatto? E basta dissociarsi poi, denunciando che è stato tradito un monumento della nostra cultura, della civiltà?
L’opera, piú di ogni altro genere d’arte, si basa su una convenzione, su un patto stretto fra autore e pubblico. Coloro che dovrebbero essere i garanti del patto, gli interpreti, hanno da tempo abdicato a questa funzione: e prima di tutto i novissimi, i registi. Se è vero che fin dalle origini del teatro musicale ci si accapigliò sulla natura della convenzione, la disputa non riguardò essa stessa ma i suoi contenuti e le sue forme in senso creativo, inglobando anche gli interpreti nel progetto formativo. Ma da quando l’opera di’repertorla non è piú un prodotto d’attualità, il processo si è invertito, portando all’eccesso il paradosso di voler rendere attuale con la regia ciò che appartiene a una convenzione fluttuante, ma fondamentalmente stabilita con esattezza all’origine.
Peter Sellars non batte la strada della lettura sovrapposta e attualizzante oggi di moda, ma quella della scientifica demolizione delle convenzioni. Che cosa c’è di piú ridicolo della storia di Pelléas et Mélisancle? Che significa mai quel mondo irreale dove nulla di certo accade, e la parola «verità» è assunta a emblema dell’inconoscibile? Tanto vale giocarci sopra. Far vedere la finzione fin dove è possibile, ironizzare sui personaggi e sulle situazioni, insinuando che il mondo dell’opera è un bazar senza fondo, anzi un manicomio dove la trasgressione è regola, la megalomania tragica farsa. Non importa se lo spessore dei personaggi, l’identità stilistica della poesia e della musica di Debussy vanno a farsi benedire: quel che conta è muovere schizofrenicamente l’azione, doppiare le figure e i gesti, inventare e moltiplicare gli effetti senza causa, avvolgendo il tutto in una atmosfera allucinata, con luci al neon che feriscono gli occhi ed esposizioni di video che trasmettono in diretta i particolari dell’avvenimento della scena. Insomma, una follia completa; nel caso neppure troppo eloquente in quanto tale, ossia come metafora critica della follia del mondo e della confusione, applicata all’opera di Debussy, della comunicazione manipolata, dove tutto è credibile e insieme oscuramente inafferrabile.
Non si ripeterà mai abbastanza che in simili condizioni la musica si condanna da sola a far da sfondo e da cornice, perdendo qualsiasi rapporto con il testo e con la scena. Simon Rattle, direttore di qualità che con la Filarmonica di Rotterdam centellina le presenze nell’opera come se puntasse solo alle grandi rivelazioni, è il primo a subirne le conseguenze: qui era un semplice convitato, di cui si intuiva il rango. Impegnati ad agire, i cantanti sembravano portare il peso del canto come una croce: e non furono redentori.
da “”Il Giornale””