Arte e trasfigurazione

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L’importante libro di Alexandra Orlova dedicato a Ciajkovskij lo avevamo già segnalato all’epoca della sua uscita negli Stati Uniti, alla fine del 1990. La sua pubblicazione in traduzione italiana nell’anno del centenario della morte del compositore consente di riconsiderarne alcuni aspetti, anche in rapporto alla forma scelta dall’autrice: una narrazione autobiografica costruita sul montaggio degli scritti (diari, lettere, appunti) lasciati da Ciajkovskij stesso. Da questi è infatti costituito tutto il testo, salvo l’aggiunta di brevi parti di collegamento (in corsivo) che servono a dare solo notizie essenziali, di carattere meramente informativo.

Anche ammettendo che, come crede la Orlova, nessuno possa descrivere la vita di un uomo meglio di lui stesso, nel nostro caso siamo di fronte a un scelta inevitabilmente parziale su un materiale non solo ampio ma anche eterogeneo. E se è vero che Ciajkovskij fu uno scrittore accanito, e che molti dei suoi pensieri piú intimi li affidò a diari e lettere, la pratica del travestimento e dell’elusione gli fu propria come a pochi altri. Per anni corrispose con la sua mecenate Nadezda von Meck, che aveva stabilito di aiutarlo non solo economicamente a patto che non si giungesse mai a una conoscenza diretta e personale.

Ciajkovskij comprese subito che si trattava di una recita nella quale il gioco delle parti doveva essere rigorosamente rispettato: e vi si adeguò, modellando l’arte dello scrivere sulla finzione lucida e consapevole tanto quanto appassionata. Attenti dunque a prendere per oro colato ogni confessione: spesso si tratta piuttosto di interpretarla, quasi leggendola in una tonalità trasposta. Cosa non sempre scontata né elementare.

Per fortuna l’edizione italiana, curata da Maria Rosaria Boccuni, è di esemplare correttezza. Si poteva cadere nell’inganno cialtroncello di basarsi sulla traduzione inglese, senza vérificarla alla fonte. E invece la Boccuni è andata con acribia e competenza a ripescare ogni passo, ritraducendolo direttamente sugli originali russi; e sono molti i casi in cui la sua interpretazione non solo differisce da quella dell’Orlova ma ne costituisce anche un evidente miglioramento: sicché quest’edizione si propone addirittura come un passo in avanti rispetto a quella inglese, un prezioso punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi a Ciaikovskij sulla scorta di un materiale attendibile, non fumosamente parafrasato o di seconda mano.

L’immagine che se ne ricava è quella di un uomo ipersensibile e solitario. Lo sfogo epistolare sembra una sorta di purificazione dal male di vivere, ma anche una preparazione alla creazione, tra esaltazione e terrore. Lo stile tende pericolosamente all’enfasi e all’eccesso, e tuttavia sottintende una misura intesa come progressiva privazione, frutto di una lunga conquista. Le pagine di diario inclinano non soltanto all’introspezione ma anche alla liberazione di forze represse.

Il tema conduttore che sembra percorrere tutta questa «autobiografia possibile» è il rimpianto di una solida collocazione nella realtà e nella storia, pesante e sfuggente: per quanto fortemente radicato nel suo secolo e nella sua terra, Ciajkovskij vaga come un sonnambulo abbandonato dal destino alla fatalità. La sua musica cerca di dare un centro a questo squilibrio e di ritrovare l’impronta di un senso nella provvisorietà, alternando lugubri rintocchi di morte a superbe, estreme accensioni di vitalità.

La tesi per cui il libro della Orlova fece scalpore è quella, tinta di «giallo», del suicidio volontariamente accettato da Ciajkovskij per sottrarsi all’incombente scandalo della sua omosessualità. Se ne è parlato già molto, anche a proposito della recente traduzione del libro della Berberova, che nella sua ricostruzione nega decisamente tale possibilità. Ebbene, a rileggerla oggi con piú attenta riflessione, la tesi del suicidio non regge.

Labili come castelli di sabbia sono le testimonianze addotte a suo sostegno, poco piú che dicerie. Ma soprattutto alla luce di questo racconto in prima persona della vita e della poetica dì Ciajkovskij, separate da confini certi, la soluzione teatrale che li confonde non appare credibile, è solo cattiva letteratura. Chi, come lui, con l’idea del suicidio non smise mai un momento di convivere, non l’avrebbe mai commesso volontariamente: sarebbe stata una conclusione troppo banale, né tragica né eroica. Dopo tutto c’erano una dignità, una coerenza da difendere, un destino a cui non era lecito sottrarsi: perché solo lf, per Ciajkovskij, si giocava la credibilità della sua immortalità di creatore, l’unica che contasse e giustificasse l’aver vissuto.

 

Alexandra Orlova, «Ciajkovskij. Un autoritratto», a cura di Maria Rosaria Boccuni, Edt, pp. 44’7, lire 65.000

da “”Il Giornale””

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