Firenze – Muti atto secondo. Dopo Mozart e Schubert alla Scala, ecco Beethoven e Brahms a Firenze e ieri sera a Napoli, a conclusione di un lungo tour europeo con i magnifici Wiener Philharmoniker. Per il nostro direttore questa conclusione italiana poteva avere un significato speciale, anzi duplice. Nel ripercorrere, quasi in un viaggio sentimentale a ritroso, le tappe della sua carriera (dalla Scala, dove opera oggi, a Firenze dove si affermò e fu molto amato, a Napoli, dove si formò con l’indimenticabile Vincenzo Vitale e debuttò come direttore), Muti si presentava, lui che è considerato a torto soprattutto un direttore di teatro, come interprete sinfonico: alle prese con quattro dei massimi autori del repertorio classico e romantico, e con un’orchestra che di questo repertorio è, sul piano esecutivo, l’espressione più completa della tradizione.
Se è cambiato il programma, non è cambiato il rituale festoso del trionfo, alla Scala come a Firenze e a Napoli: a ulteriore dimostrazione che questi cosiddetti grandi eventi, che solo da noi fanno clamorosa eccezione, seguono ovunque un copione sempre uguale e prevedibile. Ciò non toglie che questa bellissima, ideale Sinfonia in quattro tempi – Mozart, Schubert, Beethoven, Brahms – sia stata anche un’occasione di confronti musicalmente emozionanti, oltre che istruttivi; con cui prende-re atto della felice maturazione di Muti e del valore di un’orchestra che, pur rimanendo unica per proprietà di suono e morbidezza di impasti, sa adeguarsi con prodigiosa duttilità ai più diversi disegni interpretativi.
Con la Quarta Sinfonia di Beethoven e la Seconda Sinfonia di Brahms, Riccardo Muti ha non soltanto pienamente convinto, ottenendo dall’orchestra tutto ciò che chiedeva, ma si è anche autorevolmente proposto – dal vivo, assai più di quanto non risulti dai dischi – come un interprete molto sensibile e personale dello stile sinfonico. La sua visione di questi due pezzi si muove nella direzione di un recupero non tanto di forme astratte quanto di un clima musicale e poetico organicamente equilibrato, ed esattamente racchiuso in proporzioni classiche anche quando l’accumularsi delle tensioni, superando il livello di guardia minaccia la linea di confini certi. Nelle due Sinfonie, Muti vede affinità profonde, di programma compositivo e spirituale, nel segno della musica assoluta, ben oltre le ricorrenti assonanze tematiche: come se fra l’Adagio introduttivo di Beethoven e le sospensioni che frenano la corsa nel Finale della Sinfonia di Brahms corresse un tratto unitario, e vi fosse una fondamentale identità di linguaggio. Sono, questi, i punti critici, dai quali dipende spesso l’intera riuscita dell’interprete.
La libertà che Muti ha acquisito nel dipanare la trama dei percorsi tematici, degli sviluppi e delle relazioni armoniche, nel differenziare i piani sonori e stabilire i culmini drammatici (nella elegante e snella Quarta solo da ultimo, nell’improvvisa esplosione del timpani, si avverte quanto il gioco sia ambiguo e forse tragico), riposa sulla completa emancipazione della tecnica del gesto. Certo con i Wiener se lo può permettere; fatto sta che Muti non scandiva battute, ma abbracciava le grandi frasi e i periodi del discorso musicale, liberando in esso le forze latenti dei nessi compositivi: esemplare al riguardo il tema dell’Adagio della Quarta di Beethoven, dove l’arco della nobile, distesa melodia non era spezzato, come spesso accade, dalla figura ritmica di accompagnamento. E in Brahms, l’esatta definizione del tempo di base, un tempo animato come un respiro ampio, rendeva naturali e insieme efficaci anche i cambiamenti più impercettibli; senza che si indulgesse, per esempio nell’esposizione dei temi secondari o nei cantabili, a sentimentali slarganti. Così facendo, Muti mostrava di avere una chiara idea dell’insieme: evidente anche nel rispetto di tutti i ritornelli, essenziali per la resa delle simmetrie e delle misure non solo formali.
Come già alla Scala l’impegnativo programma, affrontato con la massima serietà, si è poi sciolto in appendici brillanti, dimostrative e perfino un po’ provocatorie. Giacché se il valzer di Strauss poteva essere l’omaggio (ancora alquanto impacciato) di un direttore ospite alla tradizione dell’orchestra, la scelta come bis della Sinfonia proprio del Viaggio a Reims di Rossini (opera che tutti sanno legata al nome di Abbado, direttore dell’Opera di Vienna e della Filarmonica di Berlino) aveva tutta l’aria di non essere ingenua. Nel modo sfacciatamente leggero e ammiccante con cui Muti e i Filarmonici di Vienna l’hanno eseguita, si poteva anzi leggere un messaggio di sfida, congiunto, del direttore e dell’orchestra. Anche se così non fosse, la cosa in sé parve comunque di dubbio gusto.
da “”Il Giornale “”