Ferrara – A «Ferrara Musica», in coda di stagione, festa grande con Abbado, Benigni, Kissin e la Chamber Orchestra of Europa. Ma della festa, del trionfo sapete ormai tutto. Al povero critico che viene per ultimo, e che trova (certo per sua insensibilità) questi clamori sempre un po’ esagerati, non resta che parlare di musica. Anche a rischio di rompere qualche uovo nel paniere.
Giacché, quanto a emozioni musicali, la serata non è stata tutta entusiasmante; a cominciare da Roberto Benigni, che doveva esserne l’eroe. La colpa non è sua, bensì di Pierino e il lupo dìiProkofiev. Che è una favola sinfonica, semplice, lineare, con uno scopo essenzialmente didattico: insegnare ai bambini (e ai grandi, ma in modo più mediato) a riconoscere gli strumenti dell’orchestra e a capire elementarmente, ma genialmente, come da questi strumenti possano nascere non solo timbri, ritmi, melodie, ma anche un discorso articolato, e compiuto. La presenza del narratore è puramente funzionale a questo scopo, e si colloca per così dire sullo sfondo. E’ chiaro allora che questo ruolo a Benigni va stretto. Benigni è un inventore, un affabulatore: qui invece deve rispettare misure precise. Lo fa naturalmente in modo vivace e intelligente, con una mimica straordinaria (e anche con molta serietà); ma per esempio sbaglia quando fa il verso all’uccellino o all’anatra imitandone la voce: perché la loro voce viene dall’orchestra, ed è lì che dobbiamo riconoscerla. Anche l’idea di inventare, nel bis del finale, una conclusione per così dire più ironicamente realistica (Pierino, che è poi Benigni come spirito del male, induce i cacciatori a uccidere il lupo e mangiarsi l’anatra; mentre il gatto fa finalmente fuori l’Uccellino e il nonno brontolone viene spedito all’ospizio, anzi al giardino zoologico), era in sé molto divertente, ma nulla aveva a che fare con la partitura di Prokofiev. Lecito? Lecitissimo. A patto di chiarirlo. Perfino Abbado, che di queste musiche è da sempre interprete perfetto, sembrava trovarsi un po’ a disagio: voleva assecondare le variazioni di Benigni, e nello stesso tempo le frenava, per non compromettere l’insieme.
Neppure il Concerto in re minore K.466 di Mozart, con la giovanissima star Evenij Kissin, è stato una riuscita totale. Questo moscovita di diciannove anni scoperto, si dice, da Karajan (il quale prendeva anche lui i suoi abbagli, soprattutto alla fine) ha un talento personale e una solida tecnica, ma quanto a gusto, stile e tocco sembra davvero uscito da un antico mondo di fantasmi. Slentamenti, leziosi rubati e inopinate, sdolcinate sottolineature espressive, e poi invece rincorse furibonde ed eccessi sonori, hanno contraddistinto un’esecuzione incoerente e a tratti sovrabbondante. Il fatto era reso, ancora più stridente dal consueto rigore con cui Abbado l’accompagnava: giustamente disinteressandosi delle assurdità del giovinetto (ma non era meglio spiegarglielo?) e cercando di ripristinare non solo i propri tempi (la prima entrata del pianoforte dopo l’introduzione orchestrale, con quella lentezza e pesantezza, sfiorava l’assurdo), ma anche tensioni ed equilibri più armoniosi.
Così, i punti più alti della serata sono stati le esecuzioni dei due brani contemporanei, Requies di Luciano Berio e Metabolai di Marco Stroppa. Soprattutto Requies, un pezzo del 1985 che ci presenta un Berio atipico, inquieto e concentrato su una dimensione sonora intima e spirituale, lontana dalle consuete mirabolanti invenzioni ma capace di recuperare un senso arcano della musica, ha avuto con Abbado e la Chamber una definizione stupenda. Sicché veniva alla mente il solito ritornello: quanta musica contemporanea entrerebbe non solo nella coscienza ma anche nel gradimento del pubblico se le esecuzioni fossero sempre di questa qualità? Anche Metabolai di Stroppa ha fatto la sua bella figura: questo lavoro del 1982 oscilla fra un’idea non sempre realizzata di tempo e spazio infiniti e una continua trasformazione del suono, attraverso reiterate, mobilissime combinazioni di figure distinte.
Resta dunque la soddisfazione di avere ascoltato due pezzi in diversa misura importanti del panorama contemporaneo accanto alla parziale delusione di non aver trovato in altri fatti ciò che c’era stato, forse un po’ avventatamente, promesso. Capita. Non è un dramma. Non intacca la bella festa. Ma al critico musicale s’imponeva di dirlo.
da “”Il Giornale””