Con Schubert oltre Schubert

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Per tutto l’Ottocento, e anche oltre, il nome di Schubert rimase indissolubilmente legato al genere del Lied. Si codificò così un’immagine che influì profondamente sulla fortuna del compositore, e che se da un lato pesò su tutti i musicisti che si accostarono al Lied dopo di lui (un peso che può essere paragonato solo a quello esercitato da Beethoven nel campo della Sinfonia), dall’altro finì per restringerlo in un quadro di intimismo soggettivo, di «pura» espressione lirica e sentimentale, talora convenzionale e persino caricaturale. Come nei dipinti e nei disegni popolari della sua epoca.

Sappiamo che dopo la morte di Beethoven, nel breve spazio di tempo che il destino gli assegnò da vivere, Schubert, come liberato dal peso dell’ombra del gigante, andò prefigurando e pianificando nuove vie nei territori della sua arte. Ne rimangono realizzazioni incomparabili come la «grande» Sinfonia in do maggiore e le tre ultime Sonate per pianoforte: opere postume, due volte. Giacché, nonostante l’appassionata difesa di Schumann, esse non furono subito comprese per quello che erano né valutate per quello che aprivano al futuro.

A leggere il libro di Hans-Jürgen Fröhlich, una biografia ormai classica (del 1978) ora correttamente tradotta da Carla Becagli Calamai e prefata da Uta Treder, sembra esservi flagrante contraddizione nei modi in cui l’arte e la personalità di Schubert furono intese, descritte e interpretate sia dai contemporanei che dai posteri.

Fröhlich amplifica la tesi del genio incompreso: vera, rria soltanto in parte. Non spiega il paradosso di «Schubert compositore viennese» trascurato nella Vienna del suo tempo, né quello, ancora più stridente, di «Schubert compositore» (la tremenda esclamazione «Io so di essere un artista, io sono Franz Schubert», secondo la testimonianza di Bauernfeld) poco o niente importante per i contemporanei.

Ma anche questo è poi vero solo in parte. Certo è che la sua figura umana non si integrò mai con gli ambienti ufficiali della capitale imperiale. E lo stesso vale per l’opera: o troppo sottilmente esigente e inappagante per il consumo d’uso, o troppo poco energica e autorevole per conquistarsi un rango nella frenetica vita musicale del tempo. Quel che vi domina è invece la tendenza alla rassegnazione. Il modo in cui si esprime è la malinconia, una malattia del secolo e sua personale.

Nell’ambiente ovattato e raccolto in cui visse, mantenendosi per così dire sempre ai margini, Schubert non richiese per sé quasi altro che la possibilità di un lavoro tranquillo e concentrato nella musica. Il carattere estremamente schivo e riservato, dove confluivano e si scaricavano tensioni imperscrutabili, oscillanti fra improvvise, inspiegabili euforie e altrettanto repentine, profonde depressioni, lo rendeva, più che incapace, restio a battersi per conquistare una posizione o per affermarsi pubblicamente come compositore. I suoi amici, rappresentanti di una cerchia divenuta leggendaria, erano per lo più ex-compagni di convitto tanto fedeli alI’amicizia quanto lontani dalle vette dell’arte, che pur coltivarono; molti dei quali fecero carriera come amministra-tori e funzionari dell’impero, allontanandosi a poco a poco dal colloquio intimo con il musicista. Eppure l’importanza di quella cerchia eterogenea e instabile non deve, come fa Fröhlich, venir sottovalutata. Fu lì che Schubert comprese il valore della sua arte, provando il calore della protezione e l’ebbrezza della felicità. Ma non era questa la Vienna che contava, quella che avrebbe potuto «riconoscere» Schubert.

Quando Schubert morì, aveva da poco superato i trent’anni. I suoi ultimi lavori, che sono dunque creazioni di un artista appena alle soglie della piena maturità, segnano un traguardo che, benché a noi appaia finale, rappresenta solo una fase di passaggio: piuttosto un trampolino di lancio verso quella sintesi rifondatrice delle grandi forme classi-che a cui egli, con una coscienza di sé mai avuta prima, sembrava ora poter aspirare. La morte di Schubert ci ha sottratto non soltanto un punto di riferimento importante per ricostruire la storia della musica dell’Ottocento ma anche la possibilità di vedere percorso tutto intero un cammino e di farcelo afferrare in tutti i suoi tratti. Fuori dal Lied, la cui parabola è così ampia e piena da sembrare conclusa, la sua opera è intimamente incompiuta, trocata; e ciò spiega, da ultimo, la sua immagine sfuggente. Per questo, ogni volta che ne ascoltiamola musica, ci sentiamo spinti a cercate, in essa, lo Schubert che sta oltre Schubert. Nel profondo di Schubert stesso. E qui concordiamo finalmente con Fröhlich.

 

Hans Jürgen Fröhlich, «Franz Schubert», trad. di Carla Becagli Calamai, Studio Tesi, pp. 277, lire 30.000

da “”Il Giornale””

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