Sinopoli scolpisce il canto di Elektra

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Elektra di Strauss è la storia di un’ossessione, e quest’ossessione ha un nome, Agamennone. È l’ossessione di un ricordo che diviene azione nella musica, prendendo vita e dissolvendosi con un crescendo imperioso. La tragedia in un atto di Hofmannsthal nacque per essere rappresentata da sola, ma Strauss intuí che da essa si poteva trarre non solo uno splendido libretto ma anche una creazione del tutto nuova. E non solo perché la scena conclusiva, la danza liberatoria di Elektra dopo il riconoscimento di Oreste e la vendetta, poteva essere realizzata fino in fondo grazie alla musica, ma soprattutto perché la tecnica dell’elaborazione tematica derivata da Wagner poteva approfondire quell’intreccio di mito e psicologia che era l’essenza del dramma musicale moderno. Qui Strauss andò ben oltre le intenzioni di Hofmannsthal, e le spinse fino a un punto di non ritorno.

Il tema di Agamennone si presenta subito all’inizio nella forma di un Ur-motiv a due facce o dimensioni, l’una orizzontale, melodica, che solo nel primo monologo di Elektra diverrà canto disteso, l’altra verticale, armonica. L’inciso in levare che lo apre, sulle note fondamentali re-la, si scarica a cavallo di battuta in un simbolico accordo dire minore, la cui eco domina a lungo la scena: costituendo per tutta l’opera, e nonostante l’instabilità armonica esacerbata, un centro tonale fisso. Vi è in esso quasi un compedio di memorie. In Mozart re minore è la tonalità tragica per eccellenza; un processo analogo avviene all’inizio della Nona di Beethoven e si prolunga nel gesto tempestoso con cui Wagner riconosce per la prima volta se stesso, nell’Olandese volante. Dal modo in cui il direttore intende questo attacco si può avere il senso di tutta un’interpretazione.

Giuseppe Sinopoli, che affrontava per la prima volta Elektra al festival di Taormina Arte, opta drasticamente per il motto scolpito nella pietra, anzi pietrificato, da cui si staccano, nella rete di relazioni di una polifonia orchestrale sempre piú intricata, grumi melodici intrisi di lirismo. C’è sempre, nelle sue esecuzioni, qualcosa di dimostrativo: un’idea di base perseguita strenuamente. Con lui la partitura diviene oggetto di riflessione, analisi del linguaggio, scomposizione della materia, catalogazione degli elementi; ma per riconnettersi poi a un principio di individuazione stilistica. E l’emozione, per quanto raffreddata, sta proprio in questo processo di ricomposizione che avviene durante l’esecuzione, per restituire da ultimo la compattezza della costruzione e la tensione della sostanza drammatica nella sua linea generale, anche musicale.

Se l’intesa con l’orchestra, l’ottima Philharmonia di Londra, era scontata, quella coi cantanti si è consolidata nel corso della recita. La protagonista Gabriele Schnaut, dopo un inizio incerto fors’anche a causa delle condizioni ambientali del teatro all’aperto, è cresciuta costantemente imponendosi con grande autorità (sarà pronta per fare Elektra alla Scala con Sinopoli fra due anni). Sabine Hass (Crisotemide), Reinhild Runkel (Clitennestra), Hans Sotin (Oreste), Horst Hiestermann (Egisto) hanno una tale confidenza coi loro ruoli da potersi permettere anche i rischi imposti dal direttore, nella estrema fluttuazione dei tempi e nella violenza dell’accompagnamento.

Il pregio maggiore dello spettacolo, scene e costumi di Aldo Rossi, regia di Giorgio Pressburger, stava nell’intelligente adattamento dello spazio scenico (quello già di per sé suggestivo del Teatro Antico) alle atmosfere oniriche, psicologiche della musica; e restituiva, pur con qualche forzatura superflua, quell’idea di una grecità demonica, estatica, misteriosa che Strauss idealmente accarezzò: anche prima di passare dalle rovine di Micene agli incanti di Nasso, e oltre.

 
Elektra dl Strauss a Taormina, replica questa sera.


da “”Il Giornale””

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