Piano Recital di Piero Rattalino si propone non soltanto di ricostruire la storia del programma da concerto ma anche di tracciare attraverso di essa l’evoluzione del gusto musicale. Essendo protagonista qui il pianoforte (quella dizione inglese del titolo non è bella, ma si giustifica forse con l’accostamento a recital), il periodo preso in esame va dagli anni Trenta dell’Ottocento ai nostri giorni: proiettandosi anzi «verso il Duemila», con una serie di osservazioni assai pertinenti poste in appendice. Che cosa sarà, nel Duemila, del pianoforte, in mancanza di una produzione capace di accrescere stabilmente il repertorio e di determinare un nuovo gusto?
Rattalino non vuol essere profeta, ma solo storico di una materia alla quale ha dedicato già molti studi. Questo si distingue per lo stile sobrio e piano, quasi divulgativo, della scrittura; con amplissimi spazi riservati alla elencazione: ossia alla composizione dei programmi da concerto, specchio eloquente dei cambiamenti del gusto. A produrre i quali concorse, fra diversi elementi, la volontà degli artisti di qualificare il pianoforte non solo come destinatario di una letteratura specifica ma anche mezzo di conoscenza di un’idea della musica, nella molteplicità delle scelte di campo; senza che vi fosse, almeno agli inizi, estraneità fra interprete e creatore.
In principio non era il recital. Esso nacque allorché alla pratica delle Accademie di ascendenza settecentesca, nelle quali un programma misto vocale e strumentale vedeva alternarsi esecutori e musiche per vari organici, si sostituí l’esecuzione affidata a uno o due strumentisti, con un programma piú o meno organico. A inventarlo fu Liszt, attorno al 1840. I tempi erano maturi affinché una sola figura si ergesse a dominatrice incontrastata dell’esibizione, in veste di autore, improvvisatore e interprete di altrui musiche. Se fu la giovane Clara Schumann a tentare per prima la strada del programma monografico e dell’esecuzione a memoria, Liszt, che queste innovazioni immediatamente fece sue, fu essenziale nella diffusione del modello di esecutore virtuoso, capace di soggiogare masse sempre piú enormi di pubblico, e nella creazione di una scuola che per discendenza diretta o indiretta si prolungò fino alla fine del secolo, e oltre: generando reazioni anche contrastanti col passare degli anni e delle mode.
Rattalino individua in due felici espressioni – «narrazione storica» e «romanzo storico» – i due percorsi non necessariamente paralleli lungo i quali il cammino del pianoforte ottocentesco si mosse tra studiate differenziazioni. Da una parte stava l’intenzione di offrire attraverso la scelta e la compilazione dei programmi una traccia per comprendere l’evoluzione del pianoforte in senso talvolta, non sempre, cronologico: d’altronde nel termine recital è compreso anche il principio della narrazione, un’idea di esposizione, di rappresentazione pubblica dei testi al fine non soltanto di produrre emozioni ma anche di analizzare il pensiero di un autore o le relazioni fra questo, le sue opere e quelle di altri autori. Dall’altro lato si privilegiò invece la piú completa libertà di associazioni, l’evento che l’esecutore quasi inventava li per lí a suo piacimento: offrendo agli ascoltatori la forma sonora delle emozioni che il testo suscitava in lui, con collegamenti istantanei, spesso criptici. E la linea proseguita all’inizio del Novecento da Ferruccio Busoni (peraltro non insensibile anche alla narrazione storica, fortemente personale, quasi teleologica) ed estremizzata nel nostro secolo, in modo eccentrico, da Glenn Gould. Liszt concluse la sua carriera nel 1847. La sua eredità fu raccolta sul versante «scientifico» da Hans von Bülow, fautore di programmi mastodontici che potevano giungere a includere in uno stesso recital le ultime cinque Sonate di Beethoven, e su quello «spettacolare» da Anton Rubinstein, che amava concepire i suoi programmi come «le varie portate di un pranzo»: contemperando la ricetta plateale di Liszt con ingredienti che presupponevano comunque una base storica. Non si era ancora affermata la tendenza secondo la quale la precisione tecnica doveva presupporre anche l’attendibilità dei testi e la fedeltà allo stile: suonare in modo interessante e attraente era piú importante del suonar correttamente. Per Busoni non esistevano limiti al perfezionamento dei testi: una via se si vuole piú intellettualistica rispetto alla fantasia della ricreazione che fu per lungo tempo criterio fondamentale del concertismo. Rattalino non tralascia di sottolineare gli elementi anche esterni che a poco a poco concorsero a cambiare il gusto: per esempio, nell’organizzazione musicale, il proliferare delle società di concerti e l’importanza assunta dagli agenti e dagli impresari, che sottrassero all’esecutore il dominio assoluto del suo campo. Progressivamente il recital divenne riflessione sul repertorio, recupero di ciò che era stato tralasciato (non solo Haydn e Mozart, ma anche Schubert e perfino Brahms), ridefinizione di stili (in Bach anche dei mezzi esecutivi): la scelta dei programmi fu un fattore primario per fissare l’immagine, tecnica non meno che culturale, del pianista. Una volta stabilizzato, questo momento ha virtualmente chiuso un ciclo: costringendo il pianoforte, in assenza del nuovo, a ripercorrere itinerari già esplorati. Il recital è diventato cosa un consumo che ben poco può incidere ormai sull’evoluzione del gusto.
Piero Rattalino, «Piano Recital», Flavio Pagano Ed., pp. 205, lire 28.000.
da “”Il Giornale””