Quinta incandescente e Sesta metafisica per Abbado a Ferrara

Q

Ci sarebbe ben poco da aggiungere dopo quanto è stato già detto e scritto sulla visita in Italia dei Filarmonici di Berlino col loro capo Claudio Abbado. A ciascuno il suo. A Ferrara per esempio sono toccate due Sinfonie tra le massime di Beethoven, la Quinta e la Sesta; anzi, per l’esattezza, la Sesta e la Quinta, in quest’ordine.

Peccato che Abbado, dando ovviamente per scontato il «trionfo» che avrebbe accolto lui e i suoi magnifici muscisti nel feudo ferrarese, luogo privilegiato delle due recenti presenze italiane, non abbia rispettato per una volta la successione del numero d’opera, che qui riveste un’importanza tutt’altro che esteriore: se la Quinta e la Sesta nacquero pressoché insieme, la serena distensione della «Pastorale» è il vero e unico superamento delle tensioni spasmodiche della «Sinfonia del destino», come anche le relazioni tonali (do minore – do maggiore – fa maggiore) lasciano chiaramente intendere. Dopo la Sesta non può esserci di nuovo una Quinta. Che difatti non ci fu piú, neppure in Beethoven.

Non è un’osservazione puramente accademica; non piú almeno del pregiudizio che la Quinta, con i suoi reiterati accordi in fortissimo, chiuda meglio la serata della pace raccolta, riconquistata dopo il temporale, in seno alla natura, con un inno di gioia e di ringraziamento quasi sussurrato.

Se per molti questa tournée ha significato anzitutto l’occassione di ascoltare dal vivo dopo molto tempo la Filarmonica di Berlino, per altri voleva dire anche tastare il polso dello stato dell’ochestra e delle scelte interpretative di Abbado.

La Filarmonica sta trasformandosi profondamente, è oggi una macchina poderosa e pressoché infallibile che sviluppa una massa di suono impressionante. Con Karajan il punto di riferimento era la trasparenza ottenuta per sottrazione, il «legato» e l’equilibrio calibrato tra le parti interne. Ora ognuno sembra presentarsi orgogliosamente alla ribalta per rivendicare la sua bravura. Occorrerà ancora un po’ di tempo perché, passata l’ebbrezza, gli equilibri si ricompongano nei nuovi assetti.

Abbado sembra gestire il trapasso con intelligenza e misura, adeguando il mezzo onnipotente ai suoi obbiettivi in continua evoluzione. Di Beethoven non esibisce un’idea precostituita ma la costruisce passo dopo passo con logica stringente. Nella Sesta, in una interpretazione che si potrebbe un po’ pomposamente definire «metafisica», s’insinua il recupero del racconto, dell’abbandono lirico, perfino della suggestione evocativa, se non descrittiva. Le linee fluiscono con morbidezza, il canto si fa piú sentito. Siamo davvero agli antipodi della Quinta, che Abbado rende in modo incandescente fino al limite della rottura senza ritorni né, su quel piano, possibili sviluppi.

Il pubblico del Comunale ha tributato ovazioni interminabili ai suoi beniamini. Il rifiuto del direttore di concedere bis equivaleva forse a un arrivederci, lontano dal clamore e dalla folla, in quel silenzio partecipe che talvolta ci attira come l’ultima, ragionevole stazione nei cieli della musica.

da “”Il Giornale””

Articoli