Suoni da un altro pianeta con Mehta e i Wiener al Maggio

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Tagliato fuori dalle visite della Filarmonica di Berlino e della Staatskapelle di Dresda durante le loro recenti tournées italiane, il pubblico del Comunale si è rifatto la bocca godendosi, in esclusiva al Maggio Musicale, un concerto dei Wiener Philharmoniker diretti da Zubin Mehta: sala strapiena e successo fragoroso, come a Firenze non avveniva da tempo. Di fronte a reazioni di questo genere, mentre le repliche di una Jenufa musicalmente emozionante e i primi concerti da camera del Maggio sono tutt’altro che presi d’assalto, si resta un po’ perplessi sulla vocazione internazionale del pubblico fiorentino. D’accordo, i Wiener sono i Wiener, ma accoglierli come se si trattasse di apparizioni soprannaturali suona un po’ provinciale. A meno che non sia la vocazione internazionale di Firenze, del suo Festival ad essersi affievolita negli ultimi tempi, aumentando nel pubblico fame di eventi. Giacché non è che al Maggio circolassero piú molte grandi orchestre nelle passate edizioni.

Mehta invece è di casa, ma con questa orchestra sembrava anche lui di un altro pianeta. Come interprete, anzitutto. La sua esecuzione della Settima Sinfonia di Bruckner aveva il respiro di una solida civiltà, ma anche l’emozione personale di un’adesione profonda ai grandi segnali della partitura. Di cui Mehta tende a privilegiare la cantabilità, la coesione, l’ampia e ferma sostanza che si dirama in episodi governati da un senso della forma con lui sempre riconoscibile, e fondamentalmente chiaro. Il vertice si coglieva nel secondo movimento, distesamente realizzato come se nel compianto funebre della coda risplendesse il senso di una vita che spegnendosi si rinnova: lo Scherzo seguente ne era l’eco aurorale, il Finale la raggiunta trasfigurazione. Quando poi si possono ascoltare archi di tale morbidezza e intensità, il suono stesso diviene un’esperienza vitale.

Nella prima parte Mehta aveva diretto un commosso omaggio a Messiaen, attraverso il mondo incantato di Oiseaux exotiques. Non ci sono gli archi in questa partitura, cosicché la Filarmonica di Vienna ha potuto mostrare il valore delle sue altre sezioni, e il pianista Roger Muraro la sua. Un bis attesissimo ha poi concluso il concerto: Sangue viennese di Johann Strauss.

da “”Il Giornale””

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