Non è difficile immaginare in quale clima si sia svolta, domenica sera, la «prima» della Carmen di Bizet al Comunale di Firenze: discorso doveroso e misurato del sovraintendente Bogianckino, minuto di raccoglimento, applausi scroscianti. Il programma, ritoccato con il rinvio di un giorno per il lutto cittadino, offriva quest’opera al Maggio in un’edizione molto attesa. Fosse toccato al Flauto magico, qui di scena appena fra quindici giorni, il contrasto sarebbe stato ancora piú stridente; ma la musica di Mozart avrebbe forse dato un senso all’angoscia e all’incredulità del momento, traducendosi nella risposta alla piú grande delle domande: è vivo l’amore? È reale l’amore nel mondo degli uomini? L’amore come significato segreto del vivere, questa sarebbe stata la risposta gridata da Mozart nelle tenebre.
Di altro amore vive e muore Carmen. Tragedia oscura, bruciante, individuale. Un compimento cercato e trovato con le proprie mani, nel fuoco della passione, ineluttabilmente; mentre il mondo rimane là fuori, a guardare, senza curarsi di ciò che sta accadendo. La festa accresce solo la solitudine di chi, in un altrove, si condanna liberamente all’istinto di morte. Come nell’arena di Siviglia, lo spettacolo deve continuare: cosi impone una vecchia legge del teatro. Ma questa volta, a Firenze, non è la stessa cosa. Dimenticare a teatro la realtà? O cercarvi una solidarietà, forse una consolazione per essere, nonostante tutto, ritornati alle occupazioni di sempre?
In altre circostanze si sarebbe potuto parlare a cuor leggero di una bella edizione di Carmen, ariosamente impostata su scene tradizionali di Gerardo Vera (allestimento del Covent Garden di Londra) e condotta con sano pragmatismo dalla regista Nuria Espert: cui va anche il merito di una recitazione intensa, a posto anche nei dialoghi parlati (giacché la versione scelta era quella originale in francese, coi parlati appunto, doppiata dai sopratitoli in italiano). Musicalmente la direzione di Zubin Mehta si è attestata su livelli alti, anche per la magnifica dedizione dell’orchestra e del coro. Mehta ha diretto con eleganza e brillantezza le parti d’ambiente, dai colori ora crepuscolari ora accesi (applauditissima la scena della taverna nel secondo atto, coreografata da Cristina Hoyos) e portato alla giusta atmosfera drammatica quelle nelle quali si consumano i destini dei personaggi, fra estremi opposti. In questa prospettiva funzionava a meraviglia la contrapposizione fra una Carmen ardente e tutto istinto, disegnata vivacemente da Denyce Graves, artista di temperamento, e una Micaela dolcemente introversa, liricamente sognante: una delle prove piú belle di Cecilia Gasdia. Luis Lima (Don José) e Justino Diaz (Escamillo) stavano un po’ sotto nella scala dei valori, sopperendo col mestiere e con l’esperienza a mezzi vocali non più freschissimi. Bene i comprimari, come si addice a un teatro alla ricreca della qualità. E detto del clima mesto, successo molto affettuoso per tutti.
da “”Il Giornale””