Roma – Questa mattina alle 10.40, nello spazio dedicato ai «Concerti di Raitre», va in onda un reportage su «La vera storia» di Luciano Berio, su testo di Italo Calvino con l’orchestra e il coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia e la partecipazione di Milva in veste di cantastorie.
A Vienna, Berio ha presentato due dei suoi lavori più recenti, Calmo, per mezzosoprano e orchestra da camera, e Ofanim, nella versione completa (più un omaggio al suo maestro Bruno Maderna, la splendida Serenata per un satellite): dirigendo lui stesso un complesso ridotto dell’Orchestra di Santa Cecilia; a cui è toccato così il non piccolo onore di inaugurare un prestigioso festival europeo. A Roma, invece, si è riudita, in forma di concerto, una eccellente esecuzione de La vera storia, azione musicale in due parti su testo di Italo Calvino. Quest’opera, che poi opera in senso stretto non è, bensì riflessione sulle possibilità di costruire un’opera oggi, è stata composta fra i1 1977 e i1 1981 e, dopo il debutto alla Scala nel 1982, ha girato i teatri di tutto il mondo, imponendosi quasi come un lavoro di repertorio: fatto, questo, che per un compositore italiano di teatro non accadeva più dai tempi di Dallapiccola.
Di che tratta, e che cosa vuoi significare, La vera storia? Nella prima parte si rappresenta una vicenda che ha qualche similitudine con il Trovatore, cristallizzata però in una situazione fondamentalmente bloccata, ora gioiosa, ora angosciata: una festa collettiva, corale da cui via via emergono personaggi isolati, sottratti tanto allo spazio quanto al tempo, a configurare una serie emblematica di conflitti e stati d’animo elementari. Tutto ciò si esprime coi mezzi familiari del teatro;con le sue forme tradizionali, cioè chiuse: arie, duetti, cori e così via. Ed è interrotto periodicamente da commenti stranianti, intonati da un Cantastorie: personaggio che incarna una sorta di anima o immaginario popolare.
La seconda parte ripresenta lo stesso testo, ma in un’altra successione, e con una musica diversa: ne risulta così un rimescolamento, una totale revisione degli eventi, delle parole e dei temi già vissuti. Nel ricordo, quegli stessi conflitti e stati d’animo vengono per così dire analizzati e trasfigurati, e si dispongono ora in una prospettiva musicale e drammaturgica sostanzialmente diversa. Sicché, alla fine, noi abbiamo le due facce di un’identica realtà, ma sfuggente, e aperta. E non sappiamo, delle due storie, quale sia quella vera. Forse nessuna. O tutte e due.
Per quanto l’opera si richiami a tendenze «critiche», tipiche degli anni Settanta, niente l’avvicina all’estetica del negativo. Anzi. Vi è semmai, pronunciata, la componente del gioco, musicale e intellettuale, dell’articolazione-disarticolazione; oltre a quella dote, oggi rara, in Berio spiccatissima, dell’invenzione folgorante, della «trovata» che, distendendosi compositivamente, lega in un filo unitario anche le più straripanti manipolazioni sonore. Le Ballate del Cantastorie, poi, sono gioielli a sé di una reinvenzione del canto popolare dove verità e artificio continuamente s’intrecciano.
Alla felice riuscita del lavoro hanno contribuito la concertazione di Berio, lo strenuo impegno dell’orchestra e del coro, e un manipolo di cantanti-attori che aveva in Milva, nella parte del Cantastorie, la punta di diamante.
Sicché, se qualche dubbio si poteva nutrire sull’opportunità di inaugurare la stagione della nostra massima istituzione concertistica con un’opera, sia pure sui generis, in forma di concerto, alla fine contava il fatto che la musica di un nostro grande compositore entrasse con tale prepotenza a contatto del grande pubblico, e lo interessasse e appassionasse ai destini della musica e del teatro musicale.
da “”Il Giornale””