Ritorna Fidelio Grandezza di Beethoven

R

Fidelio – in scena a Firenze il 16 giugno – è la sola opera composta per il teatro da Beethoven. La drastica concentrazione che il «titano dei musicisti» operò nella prassi compositiva del suo tempo – ogni lavoro assommando in sè i tratti di un sempre più consapevole impegno – si estese in questo caso a tal punto da divenire unicità. Eppure il peso esercitato dal Fidelio nella stessa definizione dell’immagine di Beethoven presso i posteri — non presso i contemporanei che, pur ammirandolo, lo confinarono in una sorta di «zona franca» fuori del territorio del teatro tradizionale — non fu minore di quello connesso agli altri generi della musica strumentale. Semplicemente, qui, Beethoven aveva creato un esemplare di opera d’arte non passibile nè d’imitazione nè di sviluppo, qualcosa che stava a sè, in alto, coi suoi pregi e i suoi «difetti» rispetto all’estetica teatrale convenzionale: non come modello ma come punto di riferimento ideale.

E’ indubbio che questa idealità rifulgesse soprattutto e venisse colta nei contenuti dell’opera, nello stretto intreccio di motivi etici, eroici e libertari: il tema della fratellanza e della giustizia, del trionfo delle forze del bene su quelle del male che opprime. Ma se è vero che Richard Wagner fu folgorato sulla via di Damasco della sua vocazioni teatrale proprio ascoltando il Fidelio, ciò significa che egli seppe intuire un carattere essenziale dell’unica opera teatrale di Beethoven: l’aspirazione a fare dell’Opera come genere un evento metafisico potenziato dal concorso di tutti i mezzi d’espressione in suo possesso ed elevato alla stessa dignità della «musica assoluta», di una Sinfonia o di un Quartetto.

La storia della fortuna del Fidelio è uno dei capitoli più affascinanti nel quadro più vasto della storia della fortuna di Beethoven. Esso sembra già prefigurato dalle vicende della genesi dell’opera attraverso le successive fasi di sempre più radicale rielaborazione, che condussero alla stesura definitiva del 1814. E si rispecchia anche negli avvenimenti che accompagnano le tre diverse prime rappresentazioni. La prima — un insuccesso totale — ebbe luogo durante l’occupazione napoleonica di Vienna, nel 1805; la seconda, nel 1806, passò semplicemente sotto silenzio; fu soltanto nel 1814, alla terza apparizione, che l’opera colse finalmente il successo. Si era alla vigilia del Congresso di Vienna e dell’età della Restaurazione: fu in questo clima politico e sociale che il Fidelio venne compreso e apprezzato. Esso sembrò la celebrazione del ritorno allo statu quo dopo anni di rivolgimenti e di tensioni. Paradossalmente, la rivoluzione ideale e la parabola esistenziale adombrate nel Fidelio venivano coniugate secondo i principi di un ritorno all’ordine e di un’ ripristino del buon governo.

Soltanto in tempi più recenti, cadute le utopie e le interpretazioni politiche di parte, di ogni parte, il Fidelio è stato accostato dal punto di vista della sua sostanza artistica. Ma anche qui i paradossi, anzichè chiarirsi, si sono moltiplicati. L’intuizione di Wagner, anche perchè improseguibile secondo criteri veramente wagneriani, non è stata adeguatamente sviluppata. L’ardita sperimentazione di fusione dei generi, a ogni livello, che tanto impegnò Beethoven, si ritorse, a quanto pare, a suo danno. Che cosa si è rimproverato al Fidelio? L’ibridismo della concezione drammatico-musicale, il passaggio non mediato (o almeno non esibito) dalla «pièce de sauvetage» alla tragedia borghese, dal Singspiel al dramma eroico; l’imperfezione della condotta vocale, oscillante fra moduli espressivi diversissimi, dai teneri idilli dei Duetti fra Jaquino e Marzelline agli accesi furori delle Arie di Leonora e Florestano; l’elementarità dei contrasti e della psicologia dei personaggi, che anche a uno studioso sensibile come Carli Ballola parvero nient’altro che esemplari, «simboli di virtù, vizi e passioni»; l’incidenza debordante per l’equilibrio della scena, dello spessore sinfonico, protagonista del discorso musicale (tanto che ne nacque l’idea di inserire prima dell’ultimo quadro corale il vasto affresco sinfonico riassuntivo di un’Ouverture, la Leonora n. 3 ) ; nei più ottusi, infine, persino il misticismo di natura quasi escatologica che infiamma il sacro mistero dell’amore, con accenti solenni e statici.

Questi aspetti apparentemente eterogenei, che Beethoven emblematicamente volle riunire quasi a costituire una somma dei generi operistici della sua epoca, rappresentano la forza e l’unicità del Fidelio : l’opera forse più impenetrabile e aperta che sia mai stata scritta, l’unità che Beethoven vi persegue non è apparente, ma sostanziale: essa investe l’intera problematica della creazione artistica e di motivi che concorrono a renderla eloquente. Nell’accumulazione dei materiali e delle situazioni, ben oltre la facciata esterna di un intreccio che si ingarbuglia e si dipana verso lo scioglimento del lieto fine, Beethoven ripercorre e riassume, storicamente e idealmente, il senso stesso del significato di creazione. Tendendolo fino agli estremi limiti delle possibilità di comunicazione. La fanfara della tromba che nella scena del carcere dà la peripezia del dramma, è in questo percorso il segnale che mette ogni personaggio e ogni ascoltatore a nudo, solo di fronte a se stesso. Ed è un apice che neppure a Beethoven poi sarebbe stato più concesso di toccare.

da “La Nazione”

Articoli