A giudicare dalla temperatura delle attese e dalla mobilitazione di pubblico, fiorentino e non, la parata di orchestre aperta al Maggio da Muti con la «Philadelphia» sembra destinata a rimanere il momento di maggior spicco di un festival iniziato clamorosamente fra contrasti e polemiche. Tanto che il Comunale, cogliendo l’occasione al balzo ha predisposto per la prima volta la trasmissione audiovisiva a circuito chiuso dell’intera serie di concerti nel ridotto del teatro, in diretta e a prezzi relativamente popolari: il che ci pare una buona cosa. Ma forse l’occasione si presta anche ad ulteriori considerazioni.
Anzitutto la presenza di grandi direttori, legata ormai sempre più inesorabilmente alla presenza di grandi orchestre. Orchestre costituzionalmente organizzate, oltre che per l’attività in sede, per i lunghi, estenuanti giri concertistici, che richiedono un allenamento tutto particolare e fors’anche una speciale mentalità: fatto che incide anche sulla scelta dei programmi, necessariamente mastodontici e tali da mettere in mostra le precipue qualità di un complesso, siano esse di tipo virtuosistico o semplicemente «specialistico» (l’Orchestra di Parigi che suona musica francese). Difficilmente pertanto questi programmi risultano organici; anche se va dato atto al responsabile artistico del Maggio Luciano Berio di aver cercato, fin dove possibile, un filo unitario (la linea Schubert con Muti, Chailly ed Abbado, per esempio, o la monografia stravinskiana di Bernstein).
In secondo luogo la presenza di direttori italiani legata alla presenza di orchestre straniere, con le quali essi lavorano stabilmente: se il sodalizio di Riccardo Muti con la «Philadelphia» è ormai un fenomeno consolidato e universalmente celebrato (rafforzato dall’industria discografica, come è ovvio), quello di Riccardo Chailly con l’Orchestra Sinfonica di Radio Berlino uno dei sabati più ricchi del mostro karajaniano dei Filarmonici, eppure da esso non prosciugato — è di data più recente; ed è stato interessante constatare, in una prova con un complesso di riconosciuta civiltà musicale, la maturazione di questo giovane direttore in Italia non troppo, e a torto, amato. Claudio Abbado porta le testimonianza di una delle sue creature più care, l’orchestra dei giovani della Comunità europea da cui è nata — sul ceppo originario degli «anziani» — l’orchestra da camera d’Europa, presentandosi con un programma necessariamente non d’effetto: programma temerario, al confronto con gli altri, se non si conoscessero le doti di profondità e di rigore interpretativo di Abbado.
Dalla dignità, se non dall’eccellenza, dell’orchestra di Parigi guidata da Daniel Baremboim anche in veste di pianista, è lecito aspettarsi serate stimolanti e forse anche inedite esperienze interpretative; da Leonard Bernstein, sempre più legato da intima, amorosa affinità con la Filarmonica d’Israele l’orchestra prediletta delle sue affascinanti produzioni creative abbiamo avuto scintille ed emozioni allo stato puro. Ed il confronto fra tante e tanto diverse personalità d’interpreti, oltre naturalmente a quello fra le attitudini e i tratti caratteristici di ciascuna orchestra da quella americana a quelle dei diversi paesi europei —, appare uno dei motivi di attesa più palpitante. Speriamo che tutto non si risolva in una gara per stabilire una sorta di «hit parade». Anche, se non soprattutto, un Festival importante ed entusiasmante come questo dovrebbe costituire un fatto di cultura e di consapevolezza critica, al di là degli inevitabili aspetti divistici e industriali che vi sono connessi. Mai come in questo caso gli sponsor si sono fatti avanti mettendo sul piatto la forza delle loro contropartite: ed è un dato che va quantomeno registrato.
E l’orchestra fiorentina? Ammessa di diritto e per dovere di ospitalità fra i partecipanti al festival, mai come in questo caso l’orchestra del Maggio sembra cosciente dell’importanza della posta in palio. Conforta sapere che due grandi direttori hanno accettato con entusiasmo di guidarla: Lorin Maazel, forse il più eclettico e generoso fra i direttori d’oggi, e Carlo Maria Giulini, il più estraneo ai ritmi frenetici imposti dal moderno costume musicale. Due scelte, per opposti motivi, nient’affatto casuali. Stanno riuscendo i nostri eroi a vincere la prova? Se è vero che un festival internazionale quale il Maggio vuole essere si qualifica non soltanto per il prestigio dei suoi ospiti ma anche per le proprie capacità produttive, la risposta è di quelle che contano, per il presente e per il futuro. E non è detto che, al momento di tirare le somme, il bilancio debba essere per forza negativo. Muti, Bernstein e Abbado, e i loro magnifici strumenti, permettendo.
da “La Nazione”